martedì 27 ottobre 2015

Un po' duro, un po' tenero: il pane con la petarta, per nonna Rosina

Nonna Rosina era la nonna della Commare e in realtà si chiamava Rosaria, ma tutti la chiamavano nonna Sasà.
Io invece la chiamavo nonna Rosina perché per me lei aveva proprio il viso da nonna Rosina.


La incontravo ogni volta che andavo a fare la spesa, perché frequentavamo lo stesso piccolo supermercato nel centro della città e gli stessi banchi del mercato ortofrutticolo non distante da casa sua.
La vedevo percorrere le corsie del mercato al braccio di nonno Sandro, o la scorgevo ferma davanti al banco di un contadino mentre sceglieva la verdura da acquistare.
La chiamavo e lei mi rispondeva sempre con le stesse parole di saluto e lo stesso largo sorriso sul volto cordiale.
"Buongiorno, nonna Rosina!"
"Ciao! Comme se va?"


Nonna Rosina era una donna attiva e in cucina ci sapeva fare.
La Commare mi raccontava dei pranzi e delle cene che organizzava per riunire l'intera famiglia e dei manicaretti che preparava con le sue mani, e a me sembrava proprio di averli davanti, quei piatti, e persino di assaporarli e di respirarne il profumo.
Tagliatelle, cannelloni, ravioli, cappelletti, cicche del nonno, polenta, zuppe, arrosti, frittate, pizze di verdura, frittelle, verdure ripiene, crostate, biscotti, torte  farcite, zeppole, strufoli, frappe, castagnole prendevano vita al suono di quei racconti e sembravano danzare davanti ai miei occhi sgranati.


Nonna Rosina preparava tutto in casa, dalla pasta alla conserva di pomodoro.
Perfino le salsicce, nelle quali metteva quell'ingrediente che sapeva solo lei e del quale mai e poi mai avrebbe rivelato il segreto.
"Nonna, fantastiche queste salsicce, ma che c'è dentro?"
"La petarta."
"La petarta? E che cos'è la petarta?"
"La petarta... è la petarta!"


Nonna Rosina il pane lo faceva di rado e certo non ci metteva la petarta, ma io ho scelto di ricordarla così perché questo pane sa di antico, sa di forni di paese e di vicoletti pieni di scalini, di fumo di legna e di camini accesi, e sa di nonne e delle loro mani, operose e buone come era lei.
E soprattutto perché, da quando ho sentito delle salsicce di nonna Rosina, il coriandolo a casa mia si chiama petarta!

Pane a lievitazione naturale con grano duro e coriandolo



Ingredienti:
Per il prefermento
30 g di licoli
125 g di farina manitoba Mulino Marino
100 g di acqua
Per l'impasto
125 g di farina 0 Mulino Marino
250 g di semola rimacinata di grano duro Antico Molino Rosso
245 g di acqua (se usate farine diverse potrebbe servirne un po' di più o un po' di meno)
5 g di sale fino
1 cucchiaino di malto fluido
2 cucchiai di olio extravergine d'oliva
1 cucchiaio di semi di coriandolo
Per la lavorazione
semola rimacinata di grano duro
Per lo spolvero
farina di mais tipo fioretto

Idratazione: 70%

Preparazione:
Tostate i semi di coriandolo in un padellino antiaderente per 4 minuti su fuoco medio. Trasferiteli in un piattino, lasciateli raffreddare, poi polverizzateli in un mortaio e prelevatene un cucchiaino abbondante per la ricetta.
Prefermento
Versate la farina in una ciotola e mescolate con una frustina a mano per dissolvere eventuali grumi.
Formate un buco nel mezzo, versatevi il lievito e aggiungete l'acqua a poco a poco, mescolando bene con una forchetta per non creare grumi.
Trasferite il composto in un barattolo di vetro con le pareti dritte, chiudetelo con un coperchio, segnatene il livello con un elastico e lasciatelo fermentare finché non sarà raddoppiato di volume. Ci vogliono circa 12 ore, ma questo tempo varia a seconda della temperatura dell'ambiente, quindi dovrete controllare. Il mio, a una temperatura di 22°, è triplicato di volume in 8 ore circa. Il prefermento è pronto quando comincia a collassare al centro e sulla superficie si forma una piccola piega.
Autolisi
Circa un'ora prima di usare il prefermento, con una frusta a mano mescolate la farina 0 e la semola rimacinata in una ciotola, unite 210 g di acqua e mescolate grossolanamente: non dovete impastare, ma soltanto idratare la miscela di farine. Dovrete ottenere un composto grossolano e grumoso, senza farina asciutta sul fondo della ciotola. Copritelo con la pellicola e dimenticatelo per un'ora. Durante questo tempo avverrà la cosiddetta autolisi: nell'impasto grezzo comincerà a formarsi spontaneamente la maglia glutinica per effetto del contatto tra la farina e l'acqua, il che ci permetterà di risparmiare un bel po' di lavoro durante l'impastamento. I tempi dell'autolisi vanno da un minimo di 30-40 minuti a un massimo di 3-4 ore.
Impasto
Passata l'ora, versate il composto autolitico nella ciotola della planetaria e unite il prefermento, il coriandolo macinato, il malto e l'olio. Montate la foglia e cominciate a impastare alla velocità minima, aggiungendo l'acqua rimanente un goccino per volta, senza aggiungerne altra finché la precedente non sarà stata del tutto assorbita dall'impasto: quest'ultimo dovrà essere tutto attaccato alla foglia e il fondo della ciotola pulito e asciutto. Insieme all'ultima acqua aggiungete anche il sale.
Aumentate la velocità della planetaria a 1 e impastate, ribaltando l'impasto a mano un paio di volte nella ciotola della planetaria, finché l'impasto non sarà diventato liscio e non riuscirete a tirarne un pezzetto senza che si stracci immediatamente. Se poi, allargando un pezzetto di impasto tra le dita, vedrete che forma il cosiddetto "velo", ancora meglio perché lo avrete incordato bene.
Rimettete l'impasto nella sua ciotola, copritelo con un piatto e lasciatelo riposare per 15 minuti.
Pieghe in ciotola
Versate un filino d'olio lungo la circonferenza della ciotola per ungere lievemente l'impasto lungo il bordo e fate un giro di pieghe in ciotola (guardate questo video), poi coprite la ciotola con il piatto e lasciate riposare l'impasto per 10 minuti.
Effettuate un secondo giro di pieghe e un secondo riposo di 10 minuti, poi un terzo giro di pieghe, al termine del quale lascerete riposare l'impasto per 30 minuti, sempre coprendo la ciotola con il piatto.
Pieghe di rinforzo e pirlatura
Rovesciate l'impasto su un piano di lavoro spolverato di semola rimacinata e allargatelo, picchiettandolo con i polpastrelli lungo i bordi e al centro, fino a dargli una forma quadrangolare, e praticate un giro di pieghe di rinforzo come mostrato in questo video (fate tutto come nel video, senza però ribaltare l'impasto dopo il giro di pieghe e senza riporlo ogni volta a riposare nella ciotola).
Coprite l'impasto con la ciotola rovesciata e lasciatelo riposare per 30 minuti.
Praticate un secondo giro di pieghe di rinforzo e un secondo riposo di 30 minuti, sempre coprendo l'impasto con la ciotola, poi un terzo giro di pieghe e una pirlatura, come spiegato in questo video.
Dopo la pirlatura avete due possibilità: mettere l'impasto in frigo per la maturazione e rimandare formatura, lievitazione e cottura al giorno dopo, oppure formare subito il filone o la pagnotta, aspettare che lieviti e cuocerlo.
Io ho scelto la terza opzione (eheheh...): formare il pane e metterlo in frigo per la maturazione già bello formato, pronto a lievitare... il giorno dopo!
Ma andiamo con ordine.
Se decidete di mettere l'impasto in frigo per la maturazione e rimandare formatura, lievitazione e cottura al giorno seguente, subito dopo la pirlatura depositate l'impasto nella ciotola, coprite con la pellicola e mettetelo nella parte più fredda del frigo. La mattina seguente fate tornare l'impasto a temperatura ambiente, poi rovesciatelo sul piano di lavoro e formatelo.
Se invece decidete di formare subito il pane, dopo la pirlatura coprite l'impasto con la ciotola e attendete 15 minuti prima di formarlo.
Formatura
Per formare un filone vi rimando a questo post: io stavolta ho formato una pagnotta.
Sul piano di lavoro spolverato di semola rimacinata, prelevate un pezzettino di impasto che userete come spia di lievitazione e allargate l'impasto formando un quadrato. Portate gli angoli al centro, uno dopo l'altro. Ricordatevi di sigillare i bordi e di distribuire bene l'aria all'interno dell'impasto.


Ripetete l'operazione di portare gli angoli al centro, ribaltate l'impasto e pirlatelo bene.
Rivestite la ciotola con un canovaccio pulito e spolveratelo generosamente di semola rimacinata e farina di mais, adagiatevi l'impasto capovolto nuovamente, spolveratelo con altra semola e altra farina di mais, copritelo bene ripiegandovi sopra i lembi del canovaccio e lasciatelo lievitare finché non sarà raddoppiato di volume.
Se decidete di rimandare la lievitazione e la cottura al giorno seguente, infilate la ciotola con l'impasto formato e coperto dal canovaccio in una busta di plastica, chiudetela bene e riponetela insieme alla spia di lievitazione nella parte più fredda del frigo fino al giorno dopo, quando procederete con la lievitazione e la cottura.
Cottura
Accendete il forno al massimo, con una teglia in ferro (non antiaderente, perché il rivestimento antiaderente non resiste alle alte temperature) sul fondo. Ponete una griglia sul livello centrale e appoggiatevi un pentolino con un po' di acqua calda dentro, per creare umidità nel forno e permettere al pane di espandersi nella fase iniziale della cottura.
Al raggiungimento della temperatura togliete la teglia rovente dal forno, spolveratela di semola e farina di mais e ribaltatevi sopra l'impasto, rovesciando la ciotola. Cospargetelo di semola e farina di mais, praticate dei tagli sulla superficie con una lametta affilata e infornatelo sul fondo del forno a 250° per 12 minuti.
Abbassate la temperatura a 200°, togliete dal forno il pentolino e continuate la cottura per altri 10 minuti.
Portate la teglia sul ripiano centrale del forno e cuocete il pane a 200° con la ventilazione e tenendo uno spiraglio aperto nello sportello del forno, per 25-30 minuti.
Spegnete il forno e lasciatevi dentro il pane, sempre con la ventilazione e lo spiraglio aperto, per 20 minuti.
Estraete il pane dal forno e lasciatelo raffreddare in verticale, appoggiato alla parete: in questo modo il vapore fuoriuscirà soltanto dalla "punta" del pane, senza ammorbidire la crosta.
Aspettate che sia freddo prima di tagliarlo, altrimenti il vapore contenuto all'interno del pane fuoriuscirà attraverso il taglio bagnando la mollica e rovinandola.
Potete gustare il pane alla petarta accompagnandolo con tutti i meravigliosi prodotti citati qui!


Voglio aggiungere qualche nota "tecnica" riguardo all'uso dell'impastatrice e alla temperatura dell'impasto.
La maglia glutinica si sviluppa a temperature comprese tra 20 e 26 gradi, perciò io faccio sempre in modo di non far superare all'impasto queste temperature critiche.
Poiché l'impastatrice riscalda l'impasto anche di diversi gradi durante la lavorazione, io cerco di lavorare sempre a velocità piuttosto basse, anche per non rischiare di rompere la maglia glutinica.
Per realizzare questa ricetta, ho tenuto il composto autolitico per un'ora a temperatura ambiente (20°) e per i successivi 40 minuti in frigorifero, in modo da abbassare lievemente la temperatura prima di passare alla fase di impasto a macchina. Ho messo in frigo anche la foglia dell'impastatrice e l'acqua da aggiungere all'impasto durante la lavorazione.
E' necessario aggiungere che in tutte le fasi della lavorazione ho costantemente monitorato la temperatura del mio impasto con un termometro digitale da cucina? Manco avesse avuto la febbre...! :D :D :D
Spesso, impastando a macchina soprattutto in estate, l'impasto raggiunge i 25-26 gradi senza essere ancora ben incordato: in quel caso sospendo la lavorazione e metto l'impasto in frigo per 45 minuti circa, in modo che la temperatura scenda di qualche grado. Dal punto di vista tecnico non sarà il modo più corretto per realizzare un impasto, però è efficace!

Questa ricetta partecipa alla raccolta di Ottobre 2015 di Panissimo, raccolta mensile ideata da Sandra e da Barbara e questo mese ospitata da Terry.

venerdì 23 ottobre 2015

A cena sui Monti Cecubi... e la ricetta della zuppa itrana di cannellini e scarola

Absumet heres Caecuba dignior  
servata centum clavibus et mero  
tinguet pavimentum superbo,  
pontificum potiore cenis. 

[Traduzione:
Un più degno erede berrà quei vini cecubi 
serbati ora con cento chiavi, 
e bagnerà il pavimento di vino superbo, 
migliore che nelle cene dei pontefici.
Fonte qui]

Così si esprimeva il famoso poeta latino Quinto Orazio Flacco nel 23 a. C., nella quattordicesima del suo secondo libro di Odi (Carmina, come diceva lui. E che Cum Gaudio Magno saremmo noi, se non avessimo citato il testo in latino?).


Così invece si esprimevano due emergenti foodblogger della Palude duemila anni più tardi, giorno più giorno meno, dirigendosi in auto verso il sud della provincia pontina in un piovoso tardo pomeriggio di ottobre:
"Amore, non sei emozionato che siamo stati invitati a questa degustazione dei vini dell'Azienda Agricola Monti Cecubi sulla terrazza del castello baronale di Fondi, con i piatti tipici della cucina locale? Non è fantastico? Un vero invito a un vero evento riservato a foodblogger, giornalisti e operatori del settore! Non è meraviglioso? Siamo dei veri operatori del settore! E poi l'azienda l'abbiamo già conosciuta a Sky Wine e i loro vini ci sono piaciuti tanto! Non è...?"
"Sì, sì, è tutto meraviglioso, io sono molto emozionato e noi siamo dei veri operatori del settore. Adesso però stai calma e lasciami parcheggiare. Tra l'altro leggo su quel cartello che l'evento è stato spostato presso palazzo Caetani, sicuramente a causa della pioggia. Vediamo se all'ufficio turistico hanno del materiale informativo da darci, così raccontiamo qualcosa di Fondi ai nostri lettori, visto che siamo in anticipo di due ore. Guarda, al piano superiore hanno allestito una mostra sui prodotti tipici della zona... andiamo a dare un'occhiata!"
"Quanti prodotti! Pomodoro Torpedino, pomodoro Fondanello, sedano bianco, olive della varietà Itrana, legumi, arance bionde, mozzarella di bufala, salsiccia al coriandolo, cefalo calamita, olio d'oliva, vino, birra artigianale, pasticciotti all'uva fragola, ciambelle...!"
"Dai, vieni via, mica ti puoi prendere tutte le ricette! Forza, dobbiamo dire qualcosa su Fondi, che mi sembra davvero una bella cittadina. Avanti, leggi il dépliant!"


"La città di Fondi è più antica di Roma. In età preromana il suo territorio era abitato dagli Aurunci e in seguito fu occupato dai Volsci. E' menzionata nelle fonti antiche per l'importante produzione vinicola, in particolare per il prestigioso vinum caecubum che Plinio il Vecchio descriveva come uno dei migliori vini dell'epoca.
"La contea di Fondi fu possedimento prima della famiglia Dell'Aquila, poi dei Caetani, quindi degli Aragonesi, dei Colonna e dei di Sangro. Con i Caetani e i Colonna la città conobbe un rilevante sviluppo artistico e culturale, grazie anche a Giulia Gonzaga che nel Cinquecento vi trasferì la sua corte per alcuni anni.
"Del passato di Fondi restano numerosi e pregevoli edifici storici, come il castello e il palazzo Caetani, le chiese di San Pietro, Santa Maria e San Francesco d'Assisi, il convento di San Domenico e l'abbazia di San Magno ai piedi del monte Arcano, nonché un'antica sinagoga, le mura ciclopiche e i resti di una villa romana lungo il litorale.
"Nella piana di Fondi, rinomata per l'ortofrutticoltura, si trovano numerose sorgenti e diversi laghi salmastri, tra cui il lago di Fondi, anticamente chiamato Amyclanus, che ospita specie ittiche quali l'anguilla, il lattarino, la muggine e il cefalo calamita... Pensi che possa bastare, come informazione per i nostri lettori?"
"Direi di sì, anche perché l'evento sta per iniziare e dobbiamo raggiungere palazzo Caetani!"


Saliamo i gradini della scala in pietra che ci porta al primo piano del palazzo e ci immergiamo nell'atmosfera raffinata di uno splendido salone illuminato, con tavoli rettangolari disposti lungo il perimetro e due file ordinate di botti al centro della sala, alcune delle quali rivestite con eleganti tessuti e nastri colorati. Dietro ai tavoli, i ragazzi dell'Istituto Alberghiero di Formia attendono l'inizio ufficiale dell'evento per servire ai presenti i vini dei Monti Cecubi e i piatti della tradizione culinaria fondana preparati con i prodotti tipici locali, mentre un musicista riempie con le sue note il tempo dell'attesa.


Approfittiamo del fatto che il salone non sia ancora eccessivamente affollato per ammirare il luogo che ci ospita e scattare alcune foto e poi, con i nostri calici al collo, ci dedichiamo attivamente a far conoscenza con i protagonisti della serata: i vini dei Monti Cecubi.
"Ma quali sono i Monti Cecubi?"
"Sono tutte quelle colline prospicienti il mare che vanno da Fondi a Formia toccando Sperlonga, Itri e Gaeta. La parola cecubo in realtà non indica un particolare vino o vitigno, ma un territorio ricco di vitigni autoctoni: l'uva Serpe, il Cerzale, l'Abbuoto, il Ciciniello, il San Giuseppe, l'uva Pane, nonché diverse varietà locali di Aglianico e di Falanghina. L'azienda si estende per 110 ettari, di cui venti coltivati a vigneto, sei ad oliveto della varietà Itrana per la produzione di olio e i restanti dedicati a boschi e pascoli, con sugherete e macchia mediterranea. Le vigne si trovano a trecento metri di quota sul mare di Sperlonga, in mezzo a boschi di sughere, e l'influsso del mare, unito alla forte escursione termica tra il giorno e la notte, alla composizione del terreno e all'esposizione al sole, determina l'intensità, la freschezza e la longevità dei vini cecubi. E poi - amore, questo lo devo dire assolutamente! - sia i vigneti che gli oliveti sono coltivati biologicamente!"


"Hai studiato, eh? Vediamo se sei preparata anche sulla storia."
"Sono preparatissima! Ho letto che i vini di queste zone sono conosciuti e apprezzati fin dall'antichità e sono stati celebrati e cantati da diversi poeti romani. Plinio il Vecchio, stilando una speciale classifica dei vini, riteneva il vino cecubo il migliore, superiore al Falerno che si produceva tra Sessa Aurunca e Mondragone: antea caecubum, postea falernum, scrisse. Columella, nel De Agricoltura, indicava le alture sopra l'odierna Sperlonga come il sito di produzione del miglior vino dell'impero romano. E Orazio scriveva che i vini cecubi erano nascosti, come un bene prezioso, sotto cento chiavi, ed erano superiori perfino a quelli offerti nei ricchi banchetti dei pontefici."


"E sai anche perché i vini cecubi si chiamano così?"
"Stando a quello che ho letto, Appio Claudio Cieco, il costruttore della via Appia, dopo aver percorso agevolmente la pianura pontina si imbatté proprio nella zona montuosa che va da Fondi a Formia attraverso Itri, e si rese conto che queste ultime propaggini dei monti Aurunci costituivano un ostacolo piuttosto impervio da superare. Come ricompensa per le sue fatiche, però, trovò in queste zone un pregevole ventaglio di vini che trasportò a Roma come un carico più prezioso di un trofeo di guerra. Il termine cecubo si suppone derivi da caecus "cieco", congiunto a bibeo "bevo" o bibere "bere", fusi insieme a identificare il "bere del cieco", cioè la bevanda preferita proprio da Appio Claudio Cieco. Ora però basta parlare, io non ho ancora assaggiato niente!"

Ci accostiamo al tavolo riservato alla degustazione dei vini, dove sono allineate in bella mostra diverse bottiglie dell'azienda: il vermentino Amyclano; il Thymos, assemblaggio di Boccabianca (Falanghina locale) e altre varietà autoctone bianche: uva Pane, San Giuseppe bianco, Ciciniello; e il Vinum Caecubum Rosso, composto per il 90% da uva Serpe e per il 10% da Abbuoto e affinato in tonneau. L'azienda produce anche il Vinum Caecubum Bianco, da uve Fiano in purezza fermentate e affinate in tonneau; il rosso Terrae d'Itrj, blend di Abbuoto, Cabernet Sauvignon e Serpe affinato in grandi botti di rovere e castagno; e infine, per la gioia di qualcuno, il passito Dracontion, 50% Fiano e 50% Falanghina, affinato in barrique di rovere e di acacia per due anni.


Ma poiché il qualcuno deve attendere il momento del dessert per avvicinarsi al passito, con i nostri calici e la nostra macchina fotografica ce ne andiamo alla scoperta dei prodotti locali e delle specialità della cucina fondana che vengono servite agli altri grandi tavoli del salone... non senza tornare, di tanto in tanto, al tavolo dei vini, perché lo sanno tutti che ad ogni pietanza il suo vino e ad ogni vino la sua pietanza, no? ;o)

Iniziamo la nostra cena... pardon, la degustazione con un tris di primi: gli Gnocchi con ragù di carne e salsiccia fondana e salsa di  pomodoro Torpedino, le Pettole (lunghi maltagliati) con i ceci e la Zuppa di cannellini e cicoria, che accompagniamo con un calice di Vinum Caecubum Rosso.


Proseguiamo con due secondi di pesce e due di carne: il Baccalà con peperoni arrosto, il Cefalo calamita alla scapece, il Brasato al Vino Cecubo e la Salsiccia fondana con broccoletti. Niente di meglio dell'Amyclano e del Thymos per accompagnare i piatti di pesce; quanto al brasato e alla salsiccia, li anneghiamo doverosamente nel Vinum Caecubum Rosso!


E poi tanti, ma tanti antipasti e contorni: la Salsiccia fondana, il Lonzino, la Tartara di scottona, la Caprese di pomodoro Torpedino e mozzarella di bufala, l'Insalata di pomodoro Fondanello con sedano bianco, olive di Gaeta e cipolla fresca, le Melanzane alla parmigiana, i Peperoni arrostiti, e una meravigliosa Ricotta di bufala con miele e frutti di bosco!


Sul finire della cena arriva anche il momento di conoscere un po' più da vicino l'azienda attraverso i volti, le voci e le parole delle persone che la vivono quotidianamente. Il legame dell'azienda con il territorio, la riscoperta e il recupero dei vitigni autoctoni, i metodi di coltivazione biologici, in una sorta di ritorno al passato per creare innovazione, sono tra i valori che ispirano il lavoro in vigna e in cantina presso l'azienda Monti Cecubi e che ci vengono illustrati con l'ausilio di un video proiettato nel salone, nonché dalla viva voce di Chiara Fabietti, che è l'enologa dell'azienda e che vi presentiamo:


E finalmente... il dessert e il passito!


Vedete i cioccolatini nel nostro piatto?
Per la delizia del solito qualcuno, erano ripieni di Dracontion!
E non finisce qui!
A tarda sera notiamo un tavolo affollarsi di gente, e persone allontanarsene reggendo in mano una misteriosa pallina appoggiata su un piattino...
"Un gelato! Un  gelato! Amore, dobbiamo averlo!"
E non è mica un gelato qualsiasi! E' un Gelato al pomodoro e fiordilatte di bufala con topping di olio extravergine d'oliva Itrana!


Rincasiamo a notte fonda, felici, soddisfatti e satolli.
E a qualcuno viene in mente qualcosa...
Una ricetta.
Di quelle antiche, che sanno di casa, di famiglia e di paese.
Di semplice e di buono.
Di mamme, di zie e di nonne.
E un'idea.
Sapori, colori, consistenze.
Tradizione e un pizzico di innovazione.
"Amore, voglio una bottiglia di Amyclano."
"Per fare cosa?"
"Vedrai!"


Zuppa itrana di cannellini e scarola con pane alla "petarta" e crostone di pane alla "petarta" con zuppa itrana di cannellini e scarola



Per la zuppa
Ingredienti per tre persone:
Gli ingredienti in corsivo sono nostre personali aggiunte alla ricetta tradizionale, per le quali ci prendiamo tutta la responsabilità... e anche tutto il merito!
200 g di fagioli cannellini secchi (o 480 g cotti)
1 carota
1 costa di sedano
1/2 cipolla
2 foglie di alloro
2 foglie di salvia
1 cucchiaino di semi di finocchio, pestati in un mortaio
2 piante di scarola
3 cucchiai di olio extravergine d'oliva Itrana
1-2 spicchi di aglio, tagliati a metà
peperoncino tritato, secondo il gusto
Per servire:
olio extravergine d'oliva Itrana a crudo
2-3 cucchiai di colatura di alici di Anzio (vegani e vegetariani possono escluderla)
pane (senza glutine per chi deve evitarlo) con la "petarta"

Preparazione:
Mettete a bagno i fagioli per una notte, poi scolateli, sciacquateli e lessateli con la carota, il sedano, la cipolla, l'alloro, la salvia e i semi di finocchio. Conservate l'acqua di cottura.
Lavate la scarola, lessatela, scolatela bene, mettetela in una ciotola e tagliuzzatela con le forbici.
In una pentola o casseruola ampia riunite l'olio, il peperoncino, l'aglio e i semi di finocchio (se non li avete usati per la cottura dei fagioli), e cuocete a fuoco medio finché l'aglio non sarà leggermente dorato.
Aggiungete la scarola e fatela insaporire per 10-15 minuti.
Unite i fagioli con il loro liquido di cottura e cuocete a fuoco basso e con il coperchio per circa mezzora, aggiungendo poco a poco l'acqua di cottura della scarola se il liquido dei fagioli non fosse sufficiente.
Spegnete il  fuoco, salate con parsimonia e lasciate insaporire la zuppa per qualche ora. Al momento di portarla in tavola riscaldatela e disponetela nei piatti individuali, accompagnandola con fette di pane con la petarta tostato. Completate il piatto con un giro di olio a crudo e mezzo cucchiaio di colatura di alici per ogni piatto.


Per il crostone
Ingredienti per ogni persona:
una fetta di pane (senza glutine per chi deve evitarlo) con la petarta
scarola ripassata come sopra
fagioli cannellini cotti come sopra
olio extravergine di oliva Itrana
qualche goccia di colatura di alici di Anzio (vegani e vegetariani possono escluderla)

Preparazione:
Lessate e ripassate la scarola come descritto precedentemente.
Unite i fagioli cannellini scolati dal liquido di cottura e fateli insaporire a fuoco basso e padella coperta per una decina di minuti, aggiungendo poco per volta qualche cucchiaiata della loro acqua di cottura per rendere il fondo umido e leggermente cremoso, ma non liquido. Regolate di sale, ma con moderazione.
Tostate il pane e disponete ogni fetta su un piatto individuale.
Appoggiate sul pane qualche cucchiaio di scarola ripassata con i cannellini e completate con un filo di olio e la colatura di alici.
Servite il crostone ben caldo accompagnato da un calice di Amyclano freddo.


Aho', e mo che è 'sta petarta? Che ce state a fa' magna'?
Hai ragione, lettore.
La petarta è... la petarta!
(Il mistero della petarta verrà svelato nel prossimo post!)


La ricetta della zuppa itrana di cannellini e scarola partecipa al 100% GLUTEN FREE FRI(DAY) di Gluten Free Travel and Living.

I Love Gluten Free (FRI)DAY – Gluten Free Travel & Living

venerdì 16 ottobre 2015

Insalata di zucca arrosto al timo con rucola e mozzarella di bufala

Mattina di un giorno qualunque.
Mi sveglio dopo un sogno.
Bello, anzi bellissimo.
Così bello che sento di trovarmi in uno stato di grazia.
E lo stato di grazia perdura per tutta la giornata, improntandola di sé.


Nei prossimi trenta secondi, pensate all'ultima volta in cui vi siete sentiti così al risveglio dopo un bel sogno.
Fatto? Bene.
Ora vi do altri trenta secondi per scrivere in un commento a questo post la parola che indica questa sensazione.
Trenta.
Ventinove.
Ventotto.
Ventisette.
Ventisei.
Venticinque.
Ventiquattro.
Ventitré.
Ventidue.
Ventuno.
Venti.
Diciannove.
Diciotto.
Diciassette.
Sedici.
Quindici.
Quattordici.
Tredici.
Dodici.
Undici.
Dieci.
Nove.
Otto.
Sette.
Sei.
Cinque.
Quattro.
Tre.
Due.
Uno.
Come? Non la conoscete?
Beh, non preoccupatevi.
Fino a pochi giorni fa, non la conoscevo nemmeno io. ;o)

Euneirofrenia 
Significato: "Pace della mente dopo un bel sogno" 
Dall'inglese euneirophrenia, costruito a partire dal greco eu- "buono", oneiròs "sogno" e -phrenìa, elemento che nelle parole composte indica la mente. 
Parola dal bellissimo significato, anche se fragile. 
Questa parola non è stata italianizzata prima del 2011, e perfino in inglese non appare prima del 2001. Quasi mai si trova usata in ambito medico o psicologico. Dobbiamo pensare che si tratti di un'invenzione letteraria, anche se non è evidente da dove salti fuori. Dopotutto è naturale: il lessico medico e psicologico è intrinsecamente versato nell'indicare patologie, non bei sentimenti, che non hanno bisogno di essere studiati per trovare rimedi. 
Ciò non toglie che si tratti di una gustosa invenzione - e quanto sono importanti le parole con bei significati! 
L'euneirofrenia è quel sentimento di pace rilassata e sorridente con cui ti svegli quando hai appena fatto un bel sogno. L'onda lunga di quella bellezza onirica lambisce la prima fase del risveglio: proietta il sentimento del sogno nella realtà, e la giornata comincia benissimo. Si tratta di uno sconfinamento meraviglioso, tutto interiore, che ci fa capire quanto del nostro stato d'animo dipenda dal pensiero che facciamo. Perché se non si può vivere di sogni, la realtà della nostra vita, dentro e fuori, dipende comunque dal pensiero, e dalle sue immagini; e l'euneirofrenia è una bellezza tutta nostra.
Grazie a Una parola al giorno.it!

Insalata di zucca arrosto al timo con rucola e mozzarella di bufala



adattamento di una ricetta pubblicata anni fa su 101 Cookbooks

Ingredienti per due persone:
una zucca Hokkaido (o un'altra, purché abbia polpa soda e non troppo dolce) di medie dimensioni; una volta cotta, ne userete per l'insalata circa 400 grammi
3 cucchiai di olio extravergine di oliva
qualche rametto di timo fresco, sfogliato
sale
250 g di mozzarella di bufala
100 g di rucola
semi di nigella

Preparazione:
Tagliate a metà la zucca, eliminate i semi e i filamenti interni e tagliatela a fette di circa 2 cm di larghezza, senza togliere la buccia: con la cottura diventerà morbidissima.
Mettetela in una ciotola e conditela con il sale, 2 cucchiai di olio e il timo sfogliato.
Mescolate bene e stendete la zucca su una leccarda rivestita di carta da forno, senza sovrapporre le fette.
Cuocetela in forno preriscaldato a 220°, sul livello centrale, per 20 minuti. La zucca dovrà essere morbida e leggermente caramellata.
Togliete la zucca dal forno e lasciatela raffreddare.


Nel frattempo spezzettate la mozzarella con le mani e lasciatela scolare su un piatto.
Condite la rucola con il resto dell'olio e un po' di sale. Disponetela in un piatto da portata e adagiatevi sopra le fette di zucca arrostite e la mozzarella a pezzetti. Spargete i semi di nigella sul tutto e decorate con qualche rametto di timo. Servite immediatamente.


Questa ricetta partecipa al 100% GLUTEN FREE FRI(DAY) di Gluten Free Travel and Living...

I Love Gluten Free (FRI)DAY – Gluten Free Travel & Living


... e alla raccolta “L’Orto del bimbo intollerante” (organizzato da Senza è buono e Una favola in tavola – Il mondo di Ortolandia) per il mese di ottobre che riguarda l’allergia alle uova e ha come ingredienti: zucca, uva, cachi e castagne.



Thyme roasted pumpkin, arugula and buffalo mozzarella salad

Ingredients (serves: 2):
one Hokkaido pumpkin (or another kind of pumpkin or squash, provided that it's firm and not too sweet; the original recipe calls for delicata squash) medium size, scrubbed, sliced lenghtwise, and seeded; once cooked, you will use for the salad about 400 grams
3 tablespoons extra virgin olive oil
a few sprigs of fresh thyme, peeled
salt
250 g of buffalo mozzarella
100 g of arugula
nigella seeds

Directions:
Preheat the oven to 400F with a rack in the center.
Slice the Hokkaido pumpkin or delicata squash into 1/2-inch thick crescents, without peeling it: the skin will become very soft with baking.
Toss the squash in a bowl with 2 tablespoons of olive oil, thyme and salt.
Arrange on a baking sheet in a single layer. Roast for 20-30 minutes or until tender. Flip the squash once along the way to ensure browning of both sides of the squash.
Transfer the pan to a rack and allow to cool.
Meanwhile pull the mozzarella apart and let it drain on a plate.
Toss the arugula with the remaining olive oil and a bit of salt.
Arrange the arugula on a serving dish and place the squash crescents and the mozzarella on top. Sprinkle with nigella seeds and garnish with a sprig of fresh thyme.
Serve immediately.

venerdì 9 ottobre 2015

Insalata tiepida di calamari e radicchio con uvetta, pinoli e riduzione di balsamico

Non ce la posso fare.

Mattina di un giorno qualunque.
"Cosa, Franci? Sei stata in ospedale? Non ne sapevo niente! Ma cosa hai avuto?"
"Un attacco di gastrite piuttosto forte."
"Oddio! E per quale motivo?"
"Non lo so. Forse ho mangiato qualcosa che mi ha irritato lo stomaco. Magari troppo peperoncino."
"Ma forse... come si chiama quella cosa che adesso hanno tutti?"
"Celiachia."
"Ecco, magari hai quella!"

Non ce la posso fare...
Se volete sapere perché non ce la posso fare, leggete qui.

Insalata tiepida di calamari e radicchio con uvetta, pinoli e riduzione di balsamico



questa ricetta l'ho vista presentare in tv da Renato Salvatori
ma da quel giorno l'ho fatta così tante volte
e con così tante varianti
che non mi ricordo più quali sono gli elementi della ricetta originale
e quali sono invece le mie modifiche!

Ingredienti per due persone:
2 cespi di radicchio lungo (o radicchio tondo, o rucola o un misto di rucola e radicchio)
4 calamari (o totani) di grandezza media
25 g di pinoli
25 g di uvetta
60 ml di aceto balsamico (se è quello comune del supermercato; se è quello vero, qualche goccia)
paprika piccante
1 cucchiaio di olio extravergine di oliva
sale

Preparazione:
Tostate i pinoli in un padellino antiaderente a fuoco medio per 4 minuti, poi lasciateli raffreddare in un piattino.
Fate rinvenire l'uvetta in un po' d'acqua.
Affettate il radicchio, lavato e asciugato, e mettetelo in una ciotola ampia.
Tagliate a rondelle i calamari e poneteli in una larga padella antiaderente. Cuoceteli a fuoco medio-alto fino a far loro perdere tutta l'acqua (mi verrebbe da dire acqua di vegetazione, se non stessimo parlando di animali!), scolandola dalla padella a mano a mano che fuoriesce dai calamari. Ci vorranno 5-10 minuti. Una volta che tutta l'acqua sarà stata eliminata alzate la fiamma e lasciate arrostire i calamari per 2-3 minuti. Al termine della cottura i calamari dovranno essere morbidi.
Cospargete i calamari con la paprika piccante.
Nel frattempo fate ridurre l'aceto balsamico in un pentolino scoperto a fuoco medio-basso fino a un terzo della quantità iniziale.
Condite il radicchio con i pinoli tostati, l'uvetta sgocciolata, il sale, l'olio e metà della riduzione di aceto balsamico. Disponetelo in un piatto da portata, adagiatevi sopra i calamari caldi e cospargeteli con il resto della riduzione. Servite immediatamente.


Questa ricetta partecipa al 100% GLUTEN FREE FRI(DAY) di Gluten Free Travel and Living.

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Warm salad of calamari and radicchio (red chicory) with raisins, pine nuts and balsamic vinegar reduction

Ingredients (serves: 2):
2 heads of radicchio (or round radicchio, or arugula, or a mix of arugula and radicchio)
4 calamari, medium size
25 g of pine nuts
25 g of raisins
60 ml of balsamic vinegar (the kind commonly found in every food store)
hot paprika
1 tablespoon extra virgin olive oil
salt

Directions:
Roast the pine nuts in a nonstick frying pan over medium heat for 4 minutes, then remove them from the pan and let them cool.
Soften the raisins in a bit of water.
Chop the radicchio, washed and dried, and place it in a large bowl.
Cut the calamari into rounds and place them in a large nonstick skillet over high heat. Cook over medium-high heat until they lose all the water, removing it from the pan as it comes out of the calamari. It will take 5-10 minutes. Once all the water has been removed, turn up the heat and roast the calamari for 2-3 minutes. They should be soft.
Meanwhile, let the balsamic vinegar reduce in a small saucepan over medium-low heat, up to one third of the initial quantity.
Season the radicchio with the roasted pine nuts, the drained raisins, salt, oil and half of the balsamic vinegar reduction. Arrange it on a platter, top with the warm calamari and sprinkle them with the rest of the reduction. Serve immediately.

martedì 6 ottobre 2015

Conchiglie integrali con pomodori secchi, capperi, olive di Gaeta e robiola

Un'ideuzza per pranzo.
Una ricettina issima, di quelle facilissimevelocissimeleggerissime che si preparano nel tempo di cottura della pasta.
Aggiungendo il tempo necessario per portare l'acqua a ebollizione, ovviamente.
Però io oggi non voglio parlare della ricetta.
In realtà, non voglio parlare neanche del pranzo.
Voglio parlare di una parola.
Sì, mi piace parlare delle parole.
Forse perché sono gli ingredienti dei miei post, così come gli alimenti sono gli ingredienti delle mie ricette.
Mi piace conoscerne l'origine, gli ambiti di uso, il significato.
E mi piace molto quando dietro alle parole c'è una storia che può essere raccontata.
Oggi ho scelto la parola Postprandiale, che si avvicina molto alla sfera gastronomica, pur senza immediati richiami "mangerecci", e che mi è stata proposta dal servizio Una parola al giorno.it al quale, come sapete, sono abbonata, e dal quale cito per voi.
Postprandiale 
Significato: "Che segue il pranzo; che accade durante la digestione" 
Dalla locuzione latina post prandium "dopo il pranzo". 
Questo non è un semplice aggettivo: siamo davanti ai caratteri di un cardine culturale, e di un'affermazione del fisico. 
Il rito del desco, nella cultura mediterranea, è fondamentale. E di particolare delicatezza è il momento che segue il pranzo - un momento di pace che si impone nel mezzo della giornata, conteso dalle urgenze quotidiane, e che è importante saper gestire al meglio. C'è chi ama fare una passeggiata postprandiale, per digerire e smuovere il sangue con tranquillità senza dormire; c'è chi invece si concede (può concedersi) una pennichella postprandiale per fare il chilo e avere energie fino a tarda notte; e c'è chi si intrattiene col caffè in amabili chiacchiere postprandiali, mentre chi invece continua a lavorare potrà essere irritato da imprevisti postprandiali. 
Questo aggettivo, che descrive semplicemente qualcosa che segue il pranzo (anche se pare piuttosto aulico), ogni volta che viene usato diventa una chiave di lettura del momento stesso di questo pasto, e di ciò che la digestione - accadimento nostro e fisico ma non sostenuto da alcuna volontà - ci provoca. Quando lo usiamo dobbiamo avere la consapevolezza di star toccando una delle corde più antiche e profonde della nostra cultura - perché il modo in cui il pranzo e il dopo-pranzo è considerato da noi non è certo condiviso da tutte le culture del mondo. 
Anche nel lessico medico troviamo questa parola: in questo caso, essa descrive specificamente il carattere di qualcosa che si verifica durante o dopo la digestione - come ad esempio l'innalzamento della glicemia.
E voi, cari venticinque cinquantasette lettori, cosa farete dopo aver cucinato e gustato questa pasta per pranzo?
Qualunque sia la vostra risposta, vi auguro una felice attività postprandiale!

Conchiglie integrali con pomodori secchi, capperi, olive di Gaeta e robiola



Ingredienti per 2 persone:
150 g di conchiglie integrali
1 cucchiaio di olio extravergine di oliva + 1 cucchiaio di acqua
4 mezzi pomodori secchi sott'olio, sgocciolati e tagliati a pezzetti
10 olive di Gaeta, denocciolate e tagliate a metà
1 cucchiaio di capperi sotto sale, dissalati
1 cucchiaino di origano secco
1 scalogno, affettato sottilmente
peperoncino tritato
1 cucchiaio abbondante di prezzemolo fresco, tritato + un po' per decorare il piatto
100 g di robiola

Preparazione:
Cuocete la pasta in abbondante acqua salata.
Nel frattempo riunite in una padella larga tutti gli ingredienti tranne la robiola e i cucunci e cuocete a fuoco basso e padella coperta finché lo scalogno non sarà morbido.
Sciogliete la robiola con un po' di acqua di cottura della pasta fino a renderla cremosa.
Scolate la pasta al dente e saltatela nella padella con il condimento, aggiungendo eventualmente poca acqua di cottura. Unite la robiola in crema e mescolate bene su fuoco molto basso, per scaldare la robiola.
Disponete la pasta nei piatti individuali, spolverate con il prezzemolo tenuto da parte, aggiungete i cucunci e servite.

ENGLISH VERSION

For my readers from the US, I'm adding the english version of the recipe.
I hope you all enjoy, and as this is my first recipe in English, please be kind and forgive Google Translator's mistakes! :D :D :D


Whole-wheat pasta with sundried tomatoes, capers, black olives and Robiola cheese

Ingredients (serves: 2)
150 grams whole-wheat pasta, shell-shaped
1 tablespoon extra virgin olive oil + 1 tablespoon water
2 sundried tomatoes in oil, drained, halved and chopped
10 black olives, pitted and halved
1 teaspoon dried oregano
1 shallot, thinly sliced
crushed red pepper
1 tablespoon fresh parsley, chopped + some more to decorate the dish
100 grams Robiola cheese
10 cucunci (caperberries)

Directions:
Cook the pasta in salted water.
Meanwhile, put all the ingredients in a large pan, except the Robiola and the caperberries, and cook with the lid and over low heat until the shallot will be soft.
Mix the Robiola cheese with 1-2 tablespoons of cooking water, until it becomes smooth and creamy.
Drain the pasta "al dente" and immediately toss it in the pan with the sauce, adding a little cooking water if necessary. Add the creamy Robiola and stir well on very low heat, just to warm the Robiola.
Place the pasta in individual plates, sprinkle with the parsley kept aside, add the caperberries and serve.

venerdì 2 ottobre 2015

Amaretti morbidi americano-siciliani, ovvero gli Amaretti Melilli dell'Accademia Americana

Potrei raccontare più di una storia, a proposito dei miei amaretti.
Potrei raccontare di quanto follemente mi piacciano gli amaretti, tanto per cominciare.
Potrei raccontare uno per uno gli infiniti tentativi di arrivare alla ricettaperfetta, e una per una potrei raccontare tutte le volte in cui ho infornato palline e ho sfornato sottilette.
Buoni, per carità, ma più simili a piadine che a biscotti.
Potrei raccontare di quella volta in cui ho chiesto all'anziana cuoca di un ristorante della Collina se poteva darmi la sua ricetta degli amaretti, perché, sa, a me piacciono tanto, ma ogni volta che li faccio mi si spatasciano nel forno.
E di come lei è andata gentilmente nella sua cucina a scrivermi la ricetta su un foglietto di carta: 2 kg di zucchero, 4 kg di mandorle...
Potrei raccontare della mattinata di stage presso il forno del paese, dopo aver chiesto se potevo vedere come li fate voi, gli amaretti, perché a me piacciono tanto, ma ogni volta che li faccio mi si spatasciano nel forno.
E le signore, gentilissime, Mettiti qui e guarda come li facciamo noi, ecco, vedi, questo è l'impasto, non deve essere né troppo duro né troppo morbido, sentilo col dito se no come fai a renderti conto, e il forno deve essere giusto, né troppo alto né troppo basso, ma tu che forno hai?, no, col forno di casa come fai, non ti verranno mai bene.


Potrei raccontare di attrezzi che mescolano ingredienti, di mani che formano palline, di teglie colme di amaretti perfetti.
Piccole cupole profumate e croccanti, col cuore umido e morbido.
Dita che sollevano uno per uno tutti gli amaretti e li depongono in una grande scatola di plastica trasparente col coperchio blu.
Mani che fasciano la scatola con giri e giri di pellicola alimentare per non far scappare neanche una molecola del profumo di mandorla, che infilano la scatola in un pacco di cartone, che ne sigillano tutti i bordi col nastro da pacchi.
Dita che scrivono un nome e un indirizzo su un modulo in triplice copia e lo incollano sul pacco di cartone sigillato.
Braccia che trasportano il pacco all'ufficio postale e lo affidano alle cure di Poste Italiane EssePiA, non senza averlo prima raccomandato al santo del giorno.
Messaggi inviati via scaipfeisbucuozzappgitolc: I mailed you a box, Ti ho spedito un pacco.
Potrei raccontare di un'infinita attesa, di infinite domande, Where is my box? It's in Germany stuck in the snow, Dov'è il mio pacco? E' in Germania, bloccato sotto la neve.
E infinite preghiere che la tempesta di neve che ha colpito l'Europa settentrionale si tolga di torno e lasci ripartire l'aereo col suo carico, verso qualcuno che è sempre così lontano, ma che poi in fondo troppo lontano non è.
Potrei raccontare di un telefono che squilla, e della voce del mio best friend, Mi hanno chiamato dall'ufficio, dicono che è arrivato un pacco per me che profuma di mandorle... Sono buonissimi i tuoi biscottini, ma sai una cosa, dovresti metterci più zucchero, sono un po' amari!


Potrei raccontare della ricettaperfetta, quella che ho finalmente trovato dopo tante prove, quella degli amaretti più buoni, più profumati, più croccanti fuori e morbidi dentro, quella degli amaretti che non si spatasciano, quella delle bustine col fiocchetto e il bigliettino che si regalano alle persone a cui teniamo.
La ricettaperfetta... quella che non ho scritto io!


La ricettaperfetta dei miei amaretti l'ha scritta Mirella Misenti ed è tratta dal libro specialissimo che vi ho presentato qui.
E come ho fatto ogni volta che ho pubblicato una ricetta tratta da uno dei libri dell'American Academy in Rome, lascio che si presenti da sola, riportando la piccola introduzione che precede ogni ricetta.
A voi rifarla, e innamorarvi. :o)

Amaretti Melilli

Mirella ha messo a punto questa ricetta nella cucina dell'RSFP lavorando con il sous-chef Chris Boswell. L'obiettivo era raggiungere un equilibrio ottimale tra il dolce e l'amaro. Questi amaretti sono "morbidosi"  e sono fatti nella maniera in cui si producono nella città natale di Mirella, Melilli, in Sicilia.

da "Biscotti"
di Mirella Misenti e Mona Talbott

Ingredienti per circa 30 amaretti:
280 g di mandorle sgusciate, con la pellicina
40 g di mandorle amare (obbligatorie)
200 g di zucchero di canna semolato vanigliato
scorza grattugiata di un limone grande, non trattato
3 albumi (circa 115 g)

Procedimento:
Riunite le mandorle e lo zucchero in un robot da cucina e riduceteli in farina. Se il vostro robot, come il mio, lascia dei residui troppo grossolani, setacciate la polvere ottenuta e tritate i residui una seconda volta, sempre unendo un po' di zucchero che avrete provveduto a tenere da parte.
Trasferite il tutto in una ciotola e aggiungete la scorza del limone e gli albumi sbattuti con una forchetta. Non devono essere montati, ma solo sbattuti leggermente per renderli omogenei.
Mescolate bene con la forchetta o una spatola finché tutta la polvere di mandorle non sarà bagnata. Il composto si presenterà morbido e appiccicoso.
Bagnatevi leggermente i polpastrelli e formate delle palline del peso di 20 g ognuna. Per farle tutte uguali, appoggiate un piatto su una bilancia e deponetevi sopra dei mucchietti di impasto prelevandoli con l'aiuto di due cucchiaini. Pulitevi le mani dai residui di impasto dopo averne formate quattro o cinque.
Disponete le palline su una placca ricoperta di carta da forno, distanziandole leggermente, e
lasciatele per un'ora a temperatura ambiente, in modo che sulla superficie si formi una crosticina sottile.
Infornate in forno statico e già caldo a 200° per 10-15 minuti, o comunque finché gli amaretti non saranno leggermente dorati. Lasciateli raffreddare.
Se riuscite a non mangiarveli subito tutti, conservateli in una scatola di latta ben chiusa e consumateli rapidamente, perché col passare del tempo il cuore morbido tende ad asciugarsi e a indurire.
Non saltate il riposo di un'ora a temperatura ambiente e non cuocete i biscottini a una temperatura più bassa di quella indicata, pena lo spatasciamento degli amaretti in cottura.


Le mandorle amare sono obbligatorie, o non si tratterebbe più di amaretti.
Se nonostante tutti i vostri sforzi non riusciste a procurarvele e voleste sostituirle con altrettante mandorle dolci, ovviamente potete farlo.
Però non chiamateli amaretti, perché è reato penale!


Questa ricetta partecipa al 100% GLUTEN FREE FRI(DAY) di Gluten Free Travel and Living.

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