venerdì 29 gennaio 2016

Canditi Stellari, Episodio I: L'arancia fantasma

Tanto tempo fa,
in una cucina lontana lontana...

Gravi tumulti
hanno travolto
la Galassia Culinaria
a causa dell'introduzione
dei canditi industriali
nei sistemi stellari periferici. 
L'ingorda Federazione dei Mercanti,
sperando di risolvere la questione,
ha schierato micidiali astronavi da guerra
per impedire tutte le importazioni
di agrumi non trattati nel piccolo pianeta GaudioMagno.
Mentre il Congresso della Repubblica discute senza sosta
l'allarmante succedersi degli eventi, il Cancelliere Supremo
ha inviato segretamente nella Galassia Culinaria due Foodblogger Jedi,
i guardiani del gusto e del sapore, per risolvere il conflitto...

Scorze candite di arancia e di mandarino (metodo classico)



ricette originali
di Pierodi Tamara e di Teonzo
apprese dai due Foodblogger Jedi
durante il  loro addestramento


Ingredienti: (l'etichetta Ricette vegane si riferisce soltanto alla ricetta successiva)
scorze di arancia o mandarino non trattate
acqua
zucchero semolato
miele di acacia (serve a contrastare il processo di cristallizzazione dello zucchero)

Attrezzatura:
un coltello laser per tagliare a spicchi le scorze
una pentola, meglio se con scolapasta laser incorporato
una calcolatrice laser
un calendario laser
una pinza laser
un mestolo laser
un imbuto laser
un colino laser
barattoli di vetro, ovviamente laser

Preparazione:
Prima di tutto procuratevi gli agrumi. Comprateli, rubateli, fateveli regalare, ma che siano belli, freschi e non trattati.
Lavateli bene, pelateli, magnateveli cum gaudio e tagliate le scorze a spicchi larghi, compresa la parte bianca.
Se non riuscite a mangiare in una sola volta abbastanza agrumi da mettere insieme la quantità di scorze che desiderate candire, raccogliete le scorze nell'arco di un paio di giorni conservandole in frigorifero ben chiuse in un contenitore di vetro (come ho fatto io che mi sono mangiata tre arance in un giorno e due il giorno successivo per mettere insieme circa seicento grammi di scorze da candire, che mi hanno fruttato tre vasetti da 250 ml pieni di scorze immerse nello sciroppo e un ulteriore mezzo litro di sciroppo... laser!).
Mettete le scorze nella pentola, copritele di acqua fredda, portate a ebollizione e lasciate bollire per 2-3 minuti.
Scolatele, immergetele in acqua fredda, cambiate l'acqua e ripetete l'operazione per due volte. Ossia: le scorze devono bollire in tutto tre volte.
Dopo la terza e ultima bollitura pesate le scorze.
Ora, mettete nella pentola acqua, zucchero e miele in questa proporzione:
ogni 100 g di scorze,
200 g di acqua
200 g di zucchero
33 g di miele.
In altre parole, dovete ricavare il peso dell'acqua e il peso dello zucchero moltiplicando il peso delle scorze per 2, e il peso del miele dividendo il peso delle scorze per 3.
Mettete la pentola sul fuoco finché lo zucchero non si sarà sciolto completamente.
Versate le scorze nello sciroppo caldo, coprite la pentola, lasciate macerare le scorze nello sciroppo per 24 ore e scrivete sul calendario Giorno di canditura delle scorze numero uno (vi servirà una penna laser).
Il giorno dopo scolate le scorze (lo sciroppo deve essere recuperato, quindi se la pentola ha lo scolapasta incorporato usate quello, altrimenti potete estrarre le scorze dallo sciroppo usando una pinza per farle poi sgocciolare in uno scolapasta posto sopra la pentola), riportate a bollore lo sciroppo, fatelo ridurre lasciandolo sobbollire senza coperchio per qualche minuto (a seconda di quante scorze avete: con i miei 600 grammi l'ho fatto sobbollire per 5 minuti), poi spegnete il fuoco, lasciatelo raffreddare sempre senza coperchio, versatevi di nuovo le scorze e scrivete sul calendario Giorno di canditura delle scorze numero due.
Ripetete questa operazione ogni 24 ore finché lo sciroppo non sarà diventato molto denso, la parte arancione delle scorze non sarà diventata lucida e  la parte bianca trasparente fino a sembrare arancione. Ci vorranno circa 8 giorni.
Arrivati al giorno di canditura delle scorze numero nove, scolate per bene le scorze, filtrate lo sciroppo usando il colino, riempite i barattoli per metà con l'imbuto e il mestolo, sistematevi dentro le scorze e chiudeteli.
Invasate anche lo sciroppo avanzato, che potrà essere usato per aromatizzare i dolci, per dolcificare tè, tisane e yogurt, per arricchire torte e gelati.
Potete conservare lo sciroppo e le scorze, ben ricoperte dallo sciroppo, nel frigorifero per diversi mesi. Quando vorrete utilizzare le scorze potete scolarle dallo sciroppo e farle asciugare per qualche ora tenendole su una gratella e rigirandole ogni tanto.
Un suggerimento per usarle? Frullatele ricavandone una pasta con la quale aromatizzare i dolci in mancanza di arance fresche!


Scorze candite di arancia e di mandarino (metodo laser, ossia veloce)



ricetta di Piero
già pubblicata qui

Ingredienti:
scorze di arancia o mandarino non trattate
acqua
zucchero

Preparazione:
Il metodo veloce dà risultati buoni, ma non pari a quelli che si ottengono con il metodo classico, perché una buona canditura richiede tempi lunghi. Usate il metodo veloce se siete in emergenza, se non avete tempo, o se l'alternativa è comprare quelli industriali!
Sbucciate gli agrumi, mangiateli e tagliate la scorza a strisce larghe, oppure, come in questo caso, a striscioline.
Mettete le scorzette in un pentolino, copritele di acqua fredda, portate a bollore e fate bollire per 2 minuti.
Toglietele dal fuoco, scolatele, raffreddatele con acqua corrente, rimettetele nel pentolino e ripetete il procedimento. In tutto le scorzette devono bollire 4 volte se di arancia e 3 volte se di mandarino, ogni volta per 2 minuti.
Dopo l'ultima bollitura scolatele e pesatele.
Mettete in una padella tanta acqua e tanto zucchero ognuno pari al peso delle scorzette (ossia, per 100 g di scorzette mettete nella padella 100 g di acqua e 100 g di zucchero).
Aggiungete le scorzette e fatele cuocere finché l'acqua non sarà evaporata e lo sciroppo quasi scomparso dalla padella.
Un attimo prima che il fondo della padella risulti completamente asciutto togliete le scorzette dal fuoco e mettetele ad asciugare, distanziate tra loro, su un largo foglio di carta da forno. Lasciatele asciugare per una giornata.
Fate attenzione a non lasciare troppo a lungo le scorzette sul fuoco. Se le fate cuocere un secondo di più lo zucchero si cristallizza.


"Maestro Foodblogger Jedi, vorrei che mi iniziassi ai segreti della canditura."
"Devi sapere che la canditura è un metodo di conservazione di frutta e altre parti di piante commestibili mediante immersione in uno sciroppo di zucchero. Durante il processo di canditura il contenuto in acqua della frutta si riduce per osmosi e il contenuto in zucchero viene portato gradualmente a oltre il 70%. Devi anche sapere che la parola candire viene dall'arabo qandat, che è la trascrizione della parola in sanscrito khandakah, che significa "zucchero". Ricorda: quando verrà il momento in cui ti troverai faccia a faccia con gli agrumi da candire... usa la Scorza!"


Che la Scorza sia con voi!


Questa ricetta partecipa al 100% GLUTEN FREE FRI(DAY) di Gluten Free Travel and Living.

I Love Gluten Free (FRI)DAY – Gluten Free Travel & Living

venerdì 22 gennaio 2016

Confettura (non marmellata!) di Kiwi di Latina IGP all'anice stellato

Il Kiwi di Latina (Actinidia Hayward), lo "smeraldo dolce" dell'Agro Pontino, entra a far parte dell’elenco ufficiale dei prodotti tipici italiani grazie alla certificazione IGP (Indicazione Geografica Protetta) che è stata rilasciata il 21 agosto 2004. Essendo un prodotto IGP, la certificazione prevede che almeno una fase del processo debba essere effettuata nella regione Lazio.
Il Kiwi di Latina IGP è l’unica varietà di kiwi ad aver ottenuto il marchio di qualità IGP. Introdotto nell'Agro Pontino negli anni Settanta, in un territorio un tempo ricoperto di paludi e che oggi vanta la produzione di uno dei migliori kiwi sul mercato, il Kiwi di Latina si caratterizza fin da subito come un prodotto di qualità superiore, grazie al clima temperato-umido privo o quasi di gelate e al suolo sabbioso e ricco di minerali di origine vulcanica, con terreni freschi, profondi e ben drenati. Il frutto si presenta praticamente privo di columella (la parte bianca centrale, più dura e fibrosa), gustoso e piacevole al palato. Il particolare sapore dolce-acidulo è favorito da una raccolta tardiva rispetto ad altre zone d’Italia: il clima mite consente infatti di posticipare la raccolta dei frutti al periodo a cavallo tra la fine di ottobre e l'inizio di novembre, garantendo il raggiungimento di una corretta maturazione e di un maggior contenuto zuccherino.
Il Kiwi di Latina IGP ha forma cilindrica-ellissoidale e la buccia di colore bruno-chiaro con fondo verde chiaro; la polpa è verde smeraldo chiaro, con la columella biancastra e morbida circondata da una corona di piccoli semi neri, di buon sapore e mediamente profumata e zuccherina.
La diffusione del kiwi, originario della Cina meridionale, è iniziata ai primi del Novecento grazie all'Inghilterra che lo ha esportato in Nuova Zelanda, dove al frutto è stato attribuito il nome attuale, preso in prestito da quello dell'uccello neozelandese tipico delle zone in cui è stato coltivato. L’Italia, in cui il kiwi è arrivato nella seconda metà del Novecento, è oggi uno dei primi Paesi produttori di kiwi al mondo. La regione cardine di tutta la produzione è il Lazio, che vanta il 30% produttivo di tutta la superficie nazionale.
Questo frutto dalla polpa verde si è fatto apprezzare in Europa non solo per il suo gusto, ma anche per l'elevata concentrazione di fibre, di potassio e di vitamine E e C, a fronte di un basso contenuto calorico: si compone infatti per l’84% di acqua e contiene solo il 9% di carboidrati. La varietà Hayward che si è imposta sul mercato può essere conservata in frigorifero per mesi senza subire danni. L'innesco della maturazione avviene facilmente, conservando i frutti al caldo insieme ad alcune mele (non è una leggenda metropolitana: basta mettere i kiwi da far maturare in un sacchetto di plastica insieme alle mele e maturano in qualche giorno, purché il sacchetto venga tenuto chiuso, nota di Gaudio). L'acidità, dovuta alla presenza di acido ascorbico (la vitamina C), determina l'attività antiossidante e autoconservante del frutto stesso.
Il frutto del kiwi contiene centinaia di piccoli semi neri, distribuiti radialmente intorno a un asse centrale più o meno fibroso (la columella nominata in precedenza). Ogni seme è connesso alla columella da un filamento sottile, formando una struttura che in sezione appare "a filamenti radiali": da tale struttura deriva il nome Actinidia, che dal greco richiama la forma attinomorfa, cioè "raggiata", presente anche nella struttura del fiore e dei suoi annessi.

Pistolotto culturale finito... ecco la mia ricetta!

Confettura di Kiwi di Latina IGP all'anice stellato



Ingredienti (dose per circa 400-450 ml di confettura):
600 g di Kiwi di Latina IGP, ben maturi e morbidi ma non sfatti (peso al netto degli scarti)
300 g di zucchero di canna chiaro vanigliato (fatto in casa)
4 bacche di anice stellato
succo di mezzo limone

Preparazione:
Pelate i kiwi, eliminate eventuali parti rovinate o troppo morbide, divideteli a metà per il lungo, eliminate il cuore bianco centrale (la columella) che è un po' più duro e mangiatelo. Tagliate a pezzettini il resto dei kiwi, pesateli (io ne ho ottenuti 600 g) e metteteli in una ciotola ampia insieme a una quantità di zucchero pari alla metà del loro peso. Unite l'anice stellato e il succo di limone, mescolate bene e lasciate macerare il tutto per 4 ore.
Trascorso il tempo di macerazione, versate tutto il contenuto della ciotola in una pentola larga con il fondo pesante, portate a ebollizione e cuocete a fuoco vivo fino a completa cottura della frutta, mescolando spesso con una spatola di silicone.
Mentre la frutta cuoce, disponete i tappi e i barattoli, che devono essere ben puliti, sulla placca del forno e teneteli a 100° fino al momento di usarli. Utilizzate esclusivamente tappi nuovi.
Togliete l'anice stellato mettendolo da parte e frullate grossolanamente il resto, in modo da lasciare qualche pezzetto di frutta intero. Se desiderate una confettura più liscia passatela al setaccio per raffinarla ulteriormente ed eliminare i semi. A me i semi dei kiwi non danno fastidio e mi piace trovare dei pezzetti di frutta nella confettura, quindi non l'ho setacciata.
Mettete nuovamente sul fuoco la confettura e riportatela all'ebollizione, unendo le bacche di anice stellato messe da parte.
Versate qualche goccia di confettura su un piattino e inclinatelo. Se la confettura tende a scivolare via velocemente è segno che deve cuocere e addensarsi ulteriormente, se invece tende a restare dov'è o a scivolare molto lentamente significa che la confettura è pronta per essere invasata.
Versate la confettura bollente nei barattoli, meglio se caldi, fino a 1 cm circa dal bordo (io uso un imbuto a bocca larga) e chiudeteli avvitando strettamente la capsula. Capovolgeteli, teneteli così per 5 minuti, raddrizzateli e lasciateli raffreddare, poi controllate che ogni barattolo si sia chiuso ermeticamente premendo con il dito al centro del tappo, che non dovrà essere rigonfio.
Una volta freddi, etichettate i barattoli e riponeteli in un luogo fresco e al riparo dalla luce.


A volte capita che qualche barattolo non si chiuda ermeticamente. In questo caso io mi limito a metterli in frigo e a consumarli prima degli altri, oppure... li regalo a mia madre, raccomandandole di metterli in frigo e di consumarli prima degli altri!


Devo però dire che per me l'epoca dei pentoloni traboccanti di denso passato di frutta che ribolliva sui fornelli per ore e ore è tramontata da un pezzo. Quando ho voglia di una marmellata o di una confettura, ne faccio sì e no un paio di barattoli (giusto per pubblicare la ricetta! :D ) e non sto tanto a far caso se l'unico barattolo che ho ottenuto si è chiuso ermeticamente oppure no... (Un barattolo ne ho fatto, devo pure starlo a conservare? Me lo "magno cum gaudio" immediatamente!)
... Tranne che nel caso della marmellata di pompelmi rosa - e di arance amare!


Aho', ma a casa mia 'sta robba se chiama marmellata!
Anche a casa GaudioMagno, lettore che commenti sempre dal fondo! La legge però stabilisce che si possono denominare marmellate solo le preparazioni a base di agrumi e zucchero, mentre tutte le altre si devono chiamare confetture. Quindi questa, dal punto di vista legislativo, è una confettura.
Ammazza quant'è bbona! Aho', 'o sai che te dico? Io 'ntanto m' 'a magno, e po' je chiedo er nome!!


Questa ricetta partecipa al 100% GLUTEN FREE FRI(DAY) di Gluten Free Travel and Living.

I Love Gluten Free (FRI)DAY – Gluten Free Travel & Living

martedì 19 gennaio 2016

Bauletto pandicarota al farro e grano duro a lievitazione naturale

In principio fu il Plumcake alla carota con cioccolato e pistacchi.
E la bottiglia di succo di carota entrò in casa di Gaudio.
Gaudio fece il plumcake alla carota con cioccolato e pistacchi, e il succo di carota avanzò.
Gaudio fece un altro plumcake alla carota con cioccolato e pistacchi, perché aveva visto che era molto buono.
Ma il succo di carota avanzò di nuovo.
Gaudio temporeggiò, e poi rifece il plumcake alla carota con cioccolato e pistacchi, perché era molto, molto buono.
E il succo di carota non bastò.
Allora Gaudio corse al supermercato biologico, e un'altra bottiglia di succo di carota entrò in casa sua.
E avanzò.

Gaudio fece decine di plumcake alla carota con cioccolato e pistacchi, perché vide che oltre ad essere una cosa buona, era anche sana, senza uova, senza burro, senza latte, con lo zucchero di canna, era adatto agli amici intolleranti, vegetariani, vegani, biofili e fissati, era facile e veloce da preparare e perfino da trasportare.
Gaudio fece decine di plumcake alla carota con cioccolato e pistacchi.
Alcuni li mangiò.
Molti altri li regalò, per non avere sensi di colpa.
Ma ogni volta, ogni volta il succo di carota... avanzò!

Un giorno Gaudio si stufò.
Ora basta co' 'sti plumcake alla carota con cioccolato e pistacchi. Voglio fare un'altra ricetta per consumare 'sto succo di carota.
E il Sorbetto alla carota con limoncello e ricordo di vaniglia del Madagascar fu.
E fu.
E fu.
E fu.
E ogni volta, ogni volta il succo di carota... avanzò!

E fu estate, e fu inverno.
Il succo di carota si stabilì in casa di Gaudio e dimorò con lei.
E Gaudio imparò a conoscerlo e ad apprezzarlo e a cucinare con lui.
E soprattutto... a consumarlo senza troppe calorie!

Pandicarota di farro bianco e grano duro a lievitazione naturale con semi misti, germe di grano e fiocchi di cereali integrali



Ingredienti:
Per l'impasto:
250 g di farina di farro bianco Mulino Marino
250 g di semola rimacinata di grano duro Antico Mulino Rosso
345 g di succo di carota *
50 g di licoli, rinfrescato, non rinfrescato, come vi pare; per me non rinfrescato, vecchio di due settimane e pure freddo di frigo! :D
1 cucchiaino (15 g) di malto d'orzo fluido
5 g di sale fino
2 cucchiai (20 g) di olio extravergine d'oliva
25 g di semi di lino
25 g di semi di sesamo
5 g di germe di grano *
* per questo ingrediente vedi qui
Per la lavorazione:
semola rimacinata di grano duro
Per la copertura:
poco albume
fiocchi di cereali integrali misti (segale, avena, frumento, orzo)

Idratazione: 70%

Preparazione:
Autolisi
Con una frusta a mano mescolate le farine in una ciotola, unite 275 g di succo di carota e mescolate grossolanamente: non dovete impastare, ma soltanto idratare la miscela di farine. Dovrete ottenere un composto grossolano e grumoso, senza farina asciutta sul fondo della ciotola. Se necessario, aggiungete ancora qualche goccia del succo di carota rimasto. Coprite il composto con la pellicola e dimenticatelo per un'oretta. Durante questo tempo avverrà la cosiddetta autolisi: nell'impasto grezzo comincerà a formarsi spontaneamente la maglia glutinica per effetto del contatto tra la farina e l'acqua contenuta nel succo di carota, il che ci permetterà di risparmiare un bel po' di lavoro durante l'impastamento. I tempi dell'autolisi vanno da un minimo di 30-40 minuti a un massimo di 3-4 ore.
Nel frattempo tostate i semi in un padellino su fuoco basso per circa 4 minuti, poi stendeteli in un piatto largo e fateli raffreddare.
Impasto
Mescolate il licoli con il malto e un po' del succo di carota rimasto.
Versate il composto autolitico nella ciotola della planetaria e unite il licoli mescolato con il malto e il succo di carota.
Montate la foglia e cominciate a impastare alla velocità minima, aggiungendo il succo di carota rimanente un goccino per volta, senza aggiungerne altro finché il precedente non sarà stato del tutto assorbito dall'impasto: quest'ultimo dovrà essere tutto attaccato alla foglia e il fondo della ciotola pulito e asciutto. Aumentate gradualmente la velocità fino a 1. Insieme all'ultima parte del succo di carota aggiungete il sale.
Unite l'olio, versandolo a filo pochissimo per volta e facendolo scorrere lungo le pareti della ciotola. Aspettate sempre che l'olio versato venga assorbito dall'impasto prima di versarne altro.
Impastate finché l'impasto non sarà diventato liscio e non riuscirete a vedere, allargando un pezzetto di impasto tra le dita, che forma il cosiddetto "velo". A questo punto l'impasto dovrà, quando azionerete la macchina, staccarsi dalla ciotola e raccogliersi tutto intorno alla foglia come fosse un nastro, lasciando il fondo e le pareti della ciotola puliti e senza che vi rimangano pezzetti di impasto attaccati.
Sostituite la foglia con il gancio e, a bassissima velocità, aggiungete i semi e il germe di grano. Lasciate girare la planetaria per qualche minuto, giusto il tempo che i semi vengano incorporati distribuendosi in modo omogeneo nell'impasto.
Alla fine, rimettete l'impasto nella sua ciotola, copritelo con un piatto e lasciatelo riposare per 15 minuti.
Pieghe in ciotola
Versate un filino d'olio lungo la circonferenza della ciotola per ungere lievemente l'impasto lungo il bordo, se vi sembra necessario, e fate un giro di pieghe in ciotola (guardate questo video), poi coprite la ciotola con il piatto e lasciate riposare l'impasto per 10 minuti.
Effettuate un secondo giro di pieghe e un secondo riposo di 10 minuti, poi un terzo giro di pieghe, al termine del quale lascerete riposare l'impasto per 30 minuti, sempre coprendo la ciotola con il piatto.
Pieghe di rinforzo e pirlatura
Rovesciate l'impasto su un piano di lavoro spolverato di semola rimacinata e allargatelo, picchiettandolo con i polpastrelli lungo i bordi e al centro, fino a dargli una forma quadrangolare, e praticate un giro di pieghe di rinforzo come mostrato in questo video (fate tutto come nel video, senza però ribaltare l'impasto dopo il giro di pieghe e senza riporlo ogni volta a riposare nella ciotola). Spolverate l'impasto con poca semola se vi si attacca alle dita.
Coprite l'impasto con la ciotola rovesciata e lasciatelo riposare per 30 minuti.
Praticate un secondo giro di pieghe di rinforzo e un secondo riposo di 30 minuti, sempre coprendo l'impasto con la ciotola, poi un terzo giro di pieghe e una pirlatura, come spiegato in questo video.
Ora potete scegliere se mettere l'impasto in frigo per la maturazione e rimandare formatura, lievitazione e cottura al giorno dopo, oppure se formare subito il filone, aspettare che lieviti e cuocerlo, come ho fatto io questa volta, oppure ancora se formare il pane e metterlo in frigo per la maturazione già bello formato, pronto a lievitare... il giorno dopo!
Se decidete di mettere l'impasto in frigo per la maturazione e rimandare formatura, lievitazione e cottura al giorno seguente, subito dopo la pirlatura depositate l'impasto nella ciotola, coprite con la pellicola e mettetelo nella parte più fredda del frigo. La mattina seguente fate tornare l'impasto a temperatura ambiente, poi rovesciatelo sul piano di lavoro e formatelo.
Formatura
Per formare il pane a filone, trasferite l'impasto su un piano di lavoro spolverato con la semola rimacinata, staccatene un pezzettino che userete come spia di lievitazione e allargate il resto dell'impasto delicatamente con i polpastrelli formando un rettangolo con il lato corto rivolto verso di voi.
Ripiegate gli angoli superiori del rettangolo verso il centro fino a unirli e cominciate ad arrotolare il rettangolo partendo dall'alto, serrando bene l'impasto in basso con i pollici (se non serrate bene l'impasto, il rotolo in formazione incorporerà aria che farà poi "srotolare" la fetta!) mentre con il palmo delle mani accompagnate il rotolo che state formando senza però pressarlo né schiacciarlo.

Fotografie di un altro impasto
Una volta arrotolato l'impasto, ruotatelo di 90° portando la piega di chiusura verso l'alto, allargatelo di nuovo con le dita, delicatamente (farà un po' di resistenza e lo sentirete più duro e sodo sotto le mani), e arrotolate nuovamente nello stesso modo.

Fotografie di un altro impasto

Sigillate bene la chiusura del rotolo strusciandola contro il piano di lavoro, deponetelo nel cestello della macchina del pane dopo aver tolto le palette impastatrici (la mia ne ha due) dal fondo e aver rivestito i perni con due pezzetti di carta da forno, e lasciatelo lievitare finché non sarà raddoppiato di volume (controllate la spia).
Se decidete di rimandare la lievitazione e la cottura al giorno seguente, infilate il cestello con l'impasto formato, coperto con la pellicola, in una busta di plastica, chiudetela bene e riponetela insieme alla spia di lievitazione nella parte più fredda del frigo fino al giorno dopo, quando procederete con la lievitazione e la cottura.
Cottura
Quando l'impasto sarà raddoppiato di volume, sbattete leggermente l'albume con la forchetta e spennellatelo delicatamente su tutta la superficie del pane. Cospargete abbondantemente con i fiocchi di cereali, infilate il cestello nella macchina del pane e avviate il programma di sola cottura.
Al termine estraete il cestello, attendete 10 minuti, non uno di più, e sformate il pane su una gratella eliminando i quadratini di carta da forno dal fondo del pane. Lasciatelo raffreddare completamente prima di affettarlo.


Profumato, saporito, colorato, gustoso e sfizioso.
Potete mangiarlo con qualsiasi cosa: affettati, formaggi, confetture, mostarde, salse, terrine e patè.
Potete frullarlo nel mixer insieme ad erbe aromatiche, olive, pomodori secchi, capperi, e realizzare originali panature per carne e pesce.
Potete sbocconcellarlo da solo o colandovi sopra un filo di olio novello.
Anzi, se lo mangiate da solo e chiudete gli occhi, riuscite anche a sentire un delicatissimo sapore di carota.
Come piace a me?
Beh...


E la spia??
Ah, già... la spia!!
Mentre il pane cuoce, riscaldate su fuoco basso il padellino usato per tostare i semi e fatevi scivolare sopra la spia lievitata, estraendola delicatamente dal bicchierino con la lama di un coltello senza sgonfiarla. Coprite con un coperchio e cuocete per qualche minuto, finché il fondo non sarà dorato. Rovesciate l'impasto e cuocetelo anche sull'altro lato per pochi minuti, poi toglietelo dal padellino, fatelo raffreddare su una gratella e mangiatelo così, nell'attesa, come un salatino.
Confesso che a me la spia piace quasi più del pane! ;o)


Questa ricetta partecipa alla raccolta di Gennaio 2016 di Panissimo, raccolta mensile ideata da Sandra e da Barbara e questo mese ospitata da Sandra.


venerdì 15 gennaio 2016

Umbricelli di farro e grano duro con ragù di roveja e funghi pioppini... e una visita alla cantina Blasi di Umbertide



Pomeriggio del primo giugno duemilaquindici, in un appartamento di Perugia con vista sulle colline.
"Franci, Nico, vi andrebbe di visitare un'altra cantina? Potrei portarvi a vedere quella di un amico... Sempre che non ne abbiate avuto abbastanza, di cantine, dopo il vostro educational tour umbro!"
Due ore dopo viaggiamo in macchina alla volta della cantina dell'amico del nostro amico, che ci aspetta per un tour informale ma che si rivelerà affascinante e denso di emozioni.
Siamo in anticipo per il nostro appuntamento e ci concediamo una sosta nel centro storico di Umbertide, cittadina in provincia di Perugia situata nell'alta valle del Tevere e attraversata dal torrente Reggia (o Regghia) e dal Tevere stesso. Il tempo di un caffè e di una breve passeggiata nelle stradine del caratteristico centro storico, circondato ancora dalle mura medievali nei tratti che costeggiano i corsi d'acqua, e siamo di nuovo sulla strada, diretti alla cantina Blasi.


Lasciamo l'auto all'esterno di un bell'edificio rustico che fu parte della dimora dei conti Bertanzi, acquistato alla fine degli anni Novanta dalla famiglia Blasi, originaria di Umbertide, che ha ristrutturato la cantina, risalente al 1742, trasformandola profondamente ma riuscendo a conservarne l'aspetto caratteristico e a coniugare la tradizione, la storia e l'eleganza dell'edificio originario con le esigenze di praticità e di innovazione di una cantina moderna. Negli anni successivi i proprietari hanno messo mano ai vigneti, sostenendone alcuni e reimpiantandone altri, con l'obiettivo di mantenere integre, per quanto possibile, le varietà tramandate nel tempo. Attualmente i vigneti dell'azienda, che produce anche olio extravergine d'oliva da varietà Moraiolo, Leccino e Frantoio, occupano una superficie di venti ettari e vi si ritrovano vitigni sia autoctoni che internazionali, ordinatamente disposti in maniera geometrica e armoniosa.
Entriamo nell'edificio e ci immergiamo nella penombra fresca, suggestiva e avvolgente della cantina.


Camminando dietro alla nostra guida, una ragazza carina e gentile, scendiamo verso la parte più antica della bottaia, dove botti e barrique di rovere francese custodiscono il vino che lì dentro sosta, silenzioso e indisturbato, nel suo lungo percorso di affinamento.


Come scrigni che custodiscano tesori, e come gioielli preziosi esse stesse, grandi botti si allineano una accanto all'altra lungo le pareti di ampie sale, incastonandosi sotto le volte arcuate, circondando i visitatori e rivelando di quando in quando piccole nicchie ricavate nelle pareti di mattoni, dove moderni faretti illuminano file di bottiglie, testimoni muti del lavoro e dell'operosità dei proprietari del luogo.


Seguendo la teoria delle sale dai soffitti a volta e dai mattoni a vista, arriviamo ai locali attrezzati per le degustazioni, dove stiamo per fare piena conoscenza con i prodotti della cantina. L'azienda Blasi produce tre vini rossi, il Regghia, il Blasi e l'Impronta, che costituiscono altrettanti assemblaggi di uve Sangiovese, Merlot, Sagrantino, Cabernet Sauvignon, Syrah e Alicante; il bianco Rogaie, assemblaggio di Chardonnay, Riesling e Trebbiano; il Rosato, da uve Sangiovese, Merlot e Gamay; e il passito Mammamia, assemblaggio di Trebbiano, Malvasia, Semillion e Chenin.


Usciamo nel sole del piazzale con gli occhi ancora pieni delle antiche sale e delle grandi botti di rovere francese. Qualcuno, che durante i tre giorni dell'educational tour non ha fatto altro che cicalare ed esprimere rumorosamente il proprio entusiasmo, ora appare essere rimasto senza altre espressioni che un Ma è bellissimo! pronunciato e ripetuto come un mantra ad ogni nuova sala, ad ogni nuovo corridoio, ad ogni nuova sfilata di botti.


La nostra guida ci mostra una parte del vigneto, dove ordinati filari di viti si susseguono, ognuno accompagnato da un'elegante pianta di rose posta proprio all'inizio del filare.
"Le rose non sono lì a scopo ornamentale. Le piantiamo accanto ai filari perché sono soggette alle stesse malattie delle viti ma sono meno resistenti di queste ultime e si ammalano prima, così in caso di problemi fungono da spia e noi possiamo intervenire con tempestività sul vigneto, prima che si producano danni ingenti."


Durante il viaggio di ritorno verso Perugia, in compagnia di un paio di bottiglie di vino, delle nostre preziose foto e del nostro amico, pensiamo già al modo migliore di raccontare la nostra esperienza, di trasmettere ai lettori le emozioni provate durante la visita alla cantina, e...
"... e a quale ricetta abbinare al nostro racconto! Voglio qualcosa di speciale, qualcosa di autenticamente e intimamente umbro, qualcosa che sia legato alla terra, che parli del lavoro di questa gente, qualcosa che abbia il sapore della tradizione ma anche il respiro della novità... qualcosa che sia veracemente umbro e anche profondamente nostro!"
"Eheheh... mi sa che una ricetta così non esiste!"
"No? E allora... la faremo esistere noi!"

Umbricelli di farro e grano duro con ragù di roveja e funghi pioppini




La roveja, detta anche roveglia, rubiglio, pisello dei campi, corbello, è un piccolo legume simile per forma al pisello e per gusto alla fava, dai semi colorati che vanno dal verde scuro al marrone e al grigio. Può essere consumata fresca o essiccata, divenendo un ottimo ingrediente per zuppe e minestre. Dalla macinazione a pietra dei semi si ricava una farina dal retrogusto lievemente amarognolo, usata per preparare la farecchiata o pesata, una polenta tradizionalmente condita con un battuto di acciughe, aglio e olio extravergine di oliva.
Nei secoli passati la roveja era coltivata su tutta la dorsale appenninica umbro-marchigiana, in particolare sui Monti Sibillini, dove i campi si trovavano anche a quote elevate: questo legume infatti resiste alle basse temperature, si coltiva in primavera-estate e non necessita di molta acqua. La roveja, che cresce anche spontanea nei prati e lungo le scarpate, in passato era protagonista dell'alimentazione di pastori e contadini, insieme ad altri legumi "poveri" come lenticchie, fave e cicerchie, dato il suo alto contenuto di proteine, carboidrati, fosforo e potassio, a fronte di un contenuto di grassi relativamente scarso.
Attualmente la coltivazione della roveja è stata abbandonata quasi ovunque, ma resiste ancora nella Val Nerina, in Umbria, in particolare nel territorio del comune di Cascia, in provincia di Perugia. Qui la roveja si semina a marzo a un'altitudine che va dai 600 ai 1200 metri e si raccoglie tra la fine di luglio e l'inizio di agosto. Quando la metà delle foglie è ingiallita e i semi sono diventati cerosi, gli steli vengono falciati e lasciati sul prato ad essiccare completamente, dopodiché vengono trebbiati. Si libera poi la granella dalle impurità mediante una ventilazione che avviene con setacci. Poiché la produzione della roveja avviene a quote elevate e in aree impervie, la sua raccolta è molto faticosa e difficoltosa: gli steli superano abbondantemente il metro di altezza e possono ripiegarsi fino a terra a causa del vento e della pioggia, rendendo così quasi impossibile l'impiego delle mietitrebbie meccaniche, progettate per falciare gli steli più bassi delle moderne varietà di frumento. La roveja, quindi, viene falciata a mano e stando chinati, il che richiede molto tempo e molta fatica. Questo ne ha scoraggiato la coltivazione, e, unitamente all'abbandono dei legumi minori antichi, ha contribuito a far sì che quasi nessuno oggi conosca questo piccolo e gustoso legume. (Fonte: Fondazione Slow Food)


Ingredienti per 2 persone:
Per la roveja:
200 g di roveja (vedi qui) secca (per questa ricetta ne basta la metà, ma poiché i tempi di cottura sono piuttosto lunghi vale la pena di cuocerne un po' di più e di congelare quella che avanza o usarla per un'altra preparazione, come la ricetta che vi proponiamo alla fine del post)
2 foglie di alloro
2 foglie di salvia
mezza cipolla
1 carota
1 costa di sedano
1 cucchiaino di semi di finocchio pestati in un mortaio
Per il ragù: (anche qui la dose è abbondante e vi avanzerà un po' di sugo: usatelo per preparare la ricetta che vi proponiamo alla fine del post)
un pezzo di carota
un pezzo di costa di sedano
1 scalogno
peperoncino fresco (abbiamo usato uno dei nostri Cappelli del vescovo)
1-2 cucchiai di olio extravergine di oliva
1 cucchiaino di semi di finocchio pestati in un mortaio
220 g di roveja cotta
100 ml di vino rosso umbro
400 g di passata di pomodoro
1 foglia di alloro
sale
Per i funghi:
250 g di funghi pioppini freschi
1-2 cucchiai di olio extravergine di oliva
1-2 spicchi di aglio
sale
Per gli umbricelli:
90 g di farina di farro bianca
90 g di semola rimacinata di grano duro
2 albumi
Per servire: pecorino grattugiato

Preparazione:
Roveja
Mettete in ammollo la roveja secca con 3 parti di acqua per ogni parte di roveja (il volume di acqua deve essere almeno 3 volte il volume della roveja) per 10 ore.
Trascorso il tempo di ammollo sciacquatela accuratamente e mettetela in pentola con 4 parti di acqua per ogni parte di roveja. Unite l'alloro, la salvia, la cipolla, la carota, il sedano e i semi di finocchio, portate a ebollizione e cuocete a fuoco basso per 4 ore. Lasciate che la roveja si raffreddi nell'acqua di cottura, poi eliminate le verdure e gli odori. Scolate la quantità di roveja necessaria per il ragù e conservate il resto nell'acqua di cottura.
Ragù
Tagliate a dadini la carota, il sedano, lo scalogno e il peperoncino e riuniteli in una pentola con l'olio. Fate cuocere a fiamma bassa finché le verdure non saranno appassite, poi unite i semi di finocchio pestati e lasciate cuocere ancora per 1 minuto.
Aggiungete la roveja e fatela insaporire con le verdure per qualche minuto a fuoco basso, poi versate il vino rosso e cuocete a fuoco medio e pentola scoperta fino a quando l'alcool non sarà evaporato completamente (annusate i vapori e non aggiungete il pomodoro finché il sentore di alcool non sarà scomparso).
Unite la passata di pomodoro e un po' d'acqua, se la passata è molto densa.
Aggiungete l'alloro, portate lentamente a ebollizione e cuocete il ragù a fuoco basso e pentola coperta per un'ora, lasciando appena uno spiraglio per il vapore. Versate poca acqua se il ragù si addensa troppo.
Al termine della cottura regolate di sale.
Funghi
Mentre il ragù cuoce, pulite i funghi eliminando le parti terrose alla base del gambo. Mettetene da parte la metà e tagliate il resto a pezzetti.
Riunite in una padella l'olio e l'aglio e soffriggete brevemente, senza far prendere colore all'aglio. Unite i funghi a pezzetti e fateli saltare per pochi minuti a fuoco vivo, poi abbassate la fiamma, coprite con il coperchio e continuate la cottura per qualche altro minuto. I funghi dovranno essere cotti ma ancora consistenti. Salateli, toglieteli dalla padella eliminando l'aglio e teneteli da parte.
Uniteli al ragù quando quest'ultimo sarà pronto e lasciate insaporire il tutto a fuoco spento per un'ora almeno.
Cuocete nello stesso modo i funghi lasciati interi e metteteli da parte.
Umbricelli
Mescolate le due farine e formate una fontana su una spianatoia.
Versate gli albumi nel centro e cominciate ad amalgamarli con la farina utilizzando una forchetta. Continuate ad amalgamare impastando con le mani fino a ottenere un impasto sodo e compatto. Se necessario, regolate la consistenza dell'impasto versando un po' d'acqua o unendo altra farina.
Formate una palla e lasciatela riposare sulla spianatoia, coperta da una ciotola, per mezz'ora.
Stendete la sfoglia con il mattarello fino allo spessore di 2-3 mm e tagliate delle striscioline larghe 3-4 mm. Arrotondate ogni strisciolina facendola rotolare con le mani sul piano di lavoro, dando così la forma di uno spaghettone.
Man mano che li formate, disponete gli umbricelli su un vassoio di cartone e cospargeteli con un po' di semola per non farli attaccare.
Cuocete gli umbricelli in abbondante acqua salata per qualche minuto, scolateli e conditeli subito con il ragù di roveja e funghi. Disponeteli nei piatti individuali, cospargeteli con un altro po' di ragù e con i funghi lasciati interi e completate, se lo gradite, con abbondante pecorino grattugiato.


Una ricetta speciale non si crea dal nulla.
Una ricetta speciale non si crea in un'ora, né in un giorno, una settimana o un mese.
Noi abbiamo impiegato dei mesi.
Mesi fatti di ricerche, di prove, di assaggi.
Di innumerevoli piatti di umbricelli, conditi nei modi più diversi.
Di innumerevoli ricette valutate.
Di innumerevoli ingredienti accostati.
Grazie alla fortuna, che ci ha permesso di trovare la roveja.
Che, diciamolo, se persino in Umbria oggi è poco conosciuta, in Palude non è certo più nota.
E grazie anche alla buona memoria di qualcuno e alla sua santa abitudine di gironzolare tra i blog degli altri! (La roveja di Grazia? Finalmente l'ho trovata! Finalmente la vedo! E finalmente la posso avere anch'io!)
Una piccola nota sui nostri umbricelli.
Tradizionalmente questo tipo di pasta fresca si impasta con l'acqua.
I nostri, però, li impastiamo con l'albume, soprattutto se usiamo farine che tengono meno la cottura rispetto alla farina di grano tenero.
E soprattutto se abbiamo il congelatore pieno di albumi da smaltire!

Aho', ve siete messi a chiacchiera', ma co' tutta 'sta roveja che c'avete fatto coce che ce dovemo fa'? Ma che a forza de beve in giro state a diventa' scordarelli?
Tranquillo, lettore che commenti sempre dal fondo (e che a volte, devo ammetterlo, hai ragione, ma a volte rompi pure un po' i c...! :D )!
Con la roveja rimasta e il sugo avanzato, vi suggeriamo di preparare la nostra

Zuppa di roveja con farro e funghi pioppini



Ingredienti per 2 persone:
200 g di roveja cotta come spiegato sopra, con l'acqua di cottura
100 g di farro perlato
il ragù di roveja e funghi pioppini avanzato (circa metà della dose prevista per gli umbricelli)
sale

Preparazione:
Portate a bollore la roveja nella sua acqua di cottura.
Unite il farro, sciacquato e sgocciolato, e fatelo cuocere secondo i tempi riportati sulla confezione (nel mio caso, circa 30 minuti).
Aggiungete il ragù e cuocete ancora per un quarto d'ora.
Servite, se vi piace, con una spolverata di pecorino.

Aho', poi disce che nun c'ho raggione de divve scordarelli! Ve siete fatti 'na pentolata de zuppa, e a noi che c'avete lasciato? Du' cucchiarate risicate risicate!
Ehm... hai ragione, lettore... ma vedi, era tarmente bòna che se la semo magnata "cum gaudio magno", e a momenti ce scordavamo pure de fotografalla!

giovedì 7 gennaio 2016

Zucca di pandizucca... ai semi di zucca!



Secondo il calendario, siamo entrati nell'anno duemilasedici.
Sempre secondo il calendario, il duemilasedici è un anno bisestile.
Secondo un noto detto popolare, l'anno bisestile è considerato foriero di sventure.
Dalle ultime due affermazioni discende quindi che il duemilasedici sia un anno particolarmente infausto.
La solita sfiga.
Io, però, che alla sfiga non credo, non mi ero neanche soffermata a pensare alla presenza di quel giorno in più sul calendario fino a pochi giorni fa, quando l'email quotidiana di Unaparolaalgiorno.it mi ha fatto dono della storia dell'aggettivo bisestile.
E poiché io sono una persona generosa, ho deciso di farne dono, a mia volta, ai miei venticinque sessantatré lettori.
E ora ditemi: come può un anno che inizia con un dono essere funesto? ;o)
Bisestile
Significato: Anno di 366 giorni, che ricorre ogni quattro.
Dal latino bisextus  "due volte sesto".
La necessità di organizzare l'anno civile secondo un calendario è stata una premura comune a tutte le civiltà umane organizzate. Ma alla fine osservazione degli astronomi si è presentato un problema: l'anno civile e l'anno solare non hanno la stessa lunghezza. Precisamente, l'anno solare risulta essere circa sei ore più lungo rispetto a quello civile. Un nulla: ma col passare dei decenni e dei secoli, questo scollamento porterebbe a uno slittamento delle date - perciò si è rivelato necessario un correttivo, quello dell'aggiunta ricorrente di un giorno al calendario civile ogni quattro anni.
Nella tradizione romana, questo giorno veniva aggiunto al sesto prima delle calende di marzo: le calende erano il primo giorno del mese (da questo termine scaturisce il nome calendario), quindi al 24 febbraio, il sesto giorno avanti al primo di marzo, veniva affiancato un "secondo sesto". Perciò l'anno a cui si applica questo correttivo è chiamato bisestile - anche se oggi è in vigore un diverso calendario, che lo applica con alcuni ulteriori correttivi, e dato che i giorni del mese non sono più scanditi da calende, none e idi ma seguono una semplice numerazione progressiva, questo giorno viene aggiunto in coda all'ultimo di febbraio.
E' bello: in una parola molto specifica conserviamo le categorie di una nostra tradizione lontanissima di organizzazione civile. E anche se, secondo una credenza collegata, l'anno bisestile sarebbe particolarmente funesto, non c'è da allarmarsi. E' solo superstizione.
E per ribadire il concetto faccio dono ai  miei lettori anche di questo coloratissimo pane, allegro, solare e saporito, facile da realizzare anche per coloro che non hanno ricevuto in dono spiccate doti di manualità... come me!

Pane alla zucca a lievitazione naturale, con i semi di zucca



liberamente ispirato alla ricetta vista qui

Ingredienti:
700 g di zucca cruda, pesata con la buccia ma senza i semi; ne ho ricavato 350 g di polpa cotta, e poiché era molto acquosa l'ho fatta scolare un po' conservando l'acqua, e infine per il pane ho usato 305 g di questa polpa + 25 g dell'acqua colata dalla polpa, che ho aggiunto mentre impastavo
50 g di semi di zucca sgusciati, tostati in un padellino a fuoco medio-basso per 4 minuti
500 g di farina 0 (Mulino Marino)
7 g di sale fino
50 g di licoli (rinfrescato, non rinfrescato, come vi pare)
2 cucchiai di olio extravergine d'oliva
1 cucchiaino di malto d'orzo fluido
olio per spennellare
e inoltre:
un rametto di alloro di circa 5 cm
filo da cucina

Preparazione:
Avvolgete la zucca, tagliata in due fette, in un foglio di alluminio, chiudete bene il cartoccio e cuocete in forno a 200° per un'ora.
Fate raffreddare un po' la zucca nel forno, poi con cautela aprite il cartoccio e tagliate a pezzi la zucca. Mettete ogni pezzo in uno schiacciapatate, con la buccia verso l'alto, e schiacciate, raccogliendo la polpa in una ciotola. Eliminate la buccia rimasta nello schiacciapatate e ripetete l'operazione fino a schiacciare tutta la zucca.
Se la zucca risulta molto acquosa fate scolare un po' la polpa, conservando l'acqua che cola: potrete usarla per ammorbidire l'impasto del pane in caso di bisogno, o per una minestra o un'altra preparazione.
Frullate la polpa di zucca e tenetela da parte.
Riunite in una ciotola ampia la farina e il sale e mescolate bene, arieggiando la  farina con una frusta a mano.
Aggiungete la polpa di zucca frullata, il licoli, l'olio e il malto e mescolate con una forchetta, poi cominciate a impastare nella ciotola aggiungendo, se necessario, l'acqua colata dalla zucca, un cucchiaino per volta. Dovete ottenere un impasto morbido, ma non appiccicoso.
Lavorate l'impasto, nella ciotola o su un piano di lavoro, finché non diventa omogeneo. Se non è liscio arrotondatelo raccogliendo con le dita un po' d'impasto dal  bordo, portandolo al centro con la mano chiusa e affondandolo nel resto dell'impasto con il pugno (in altre parole, è come impastare sulla spianatoia, ma con una mano sola e all'interno della ciotola), poi lasciatelo riposare per una decina di minuti nella ciotola coperta con un piatto.


Rovesciate l'impasto su un piano di lavoro spolverato di semola rimacinata e allargatelo, picchiettandolo con i polpastrelli lungo i bordi e al centro, fino a dargli una forma quadrangolare. Staccatene un pezzettino che userete come spia di lievitazione e cospargetelo con una parte dei semi di zucca tostati, praticate una piega di rinforzo in verticale, cospargetelo con un altro po' di semi e praticate un'altra piega in orizzontale. Coprite l'impasto con una ciotola per dieci minuti.


Ripetete questa operazione per altre due volte, inglobando un po' per volta tutti i semi. Dopo l'ultimo giro di pieghe pirlate l'impasto e fatelo riposare per dieci minuti.
Allargate di nuovo l'impasto picchiettandolo con i polpastrelli, dategli una forma quadrata e formate una pagnotta nel modo descritto qui con la sequenza fotografica. Rovesciate l'impasto e pirlatelo nuovamente.


Ora date alla pagnotta la forma di zucca. Usando lo spago da cucina unto abbondantemente di olio, fate quattro intrecci e otterrete così otto spicchi. Lo spago dovrà essere teso in modo da aderire all'impasto senza però stringerlo. Per la sequenza fotografica vi rimando al post di Enrica... con le mani unte non potevo maneggiare la macchina fotografica!


Infilate sulla sommità della zucca il rametto di alloro e avvolgete con alluminio la porzione del rametto che fuoriesce dall'impasto, in modo che non bruci durante la cottura in forno.


Trasferite la zucca sulla leccarda ricoperta di carta da forno, spennellatela di olio, copritela con un pezzo di pellicola appena appoggiata e mettetela a lievitare nel forno spento con la luce accesa insieme alla spia di lievitazione, che vi servirà per misurare il raddoppio del volume.


Quando l'impasto sarà ben lievitato, cuocetelo in forno preriscaldato a 200° per 10 minuti, poi abbassate la temperatura a 180° per 25 minuti o finché il pane non sarà bello dorato. Poiché questo pane resta piuttosto umido, se lo desiderate più asciutto proseguite la cottura a 180° per altri 10 minuti attivando la ventilazione e tenendo lo sportello del forno socchiuso, poi tenete il pane nel forno spento ancora per 10 minuti, sempre con la ventola in funzione e lo sportello socchiuso.


Una volta sfornata la zucca, tagliate il filo da cucina tra i vari spicchi sia sulla superficie del pane che sul fondo, poi eliminate i vari pezzi di filo tirandone le varie estremità per sfilarli dall'impasto.


Lasciate raffreddare il pane in verticale appoggiato al muro e tagliatelo solo quando sarà ben freddo.
Potete gustarlo al naturale o accompagnarlo con formaggi, affettati, confetture e creme varie sia dolci che salate... insomma, magnatevelo cum gaudio ché è buonissimo, umido e morbido e profumato, e come tutte le zucche che si rispettino, pieno di semi saporiti e croccanti!


Questa ricetta partecipa alla raccolta di Gennaio 2016 di Panissimo, raccolta mensile ideata da Sandra e da Barbara e questo mese ospitata da Sandra.