lunedì 28 dicembre 2015

Una giornata al frantoio... e un pane profumato con l'olio novello


Qualche giorno prima di questa foto, una domenica soleggiata di novembre duemilaquindici.
Due foodblogger della Palude percorrono gli stretti vicoli di un paesino sui Monti Ernici.
Vico nel Lazio, settecentoventuno metri sul livello del mare, poche anime ad abitarlo tutto l'anno e una vista mozzafiato sulla Ciociaria.
I due foodblogger si dirigono al parcheggio di fronte a una delle porte di ingresso al paese.
Salgono in auto e via, verso la vallata.
La stradina che serpeggia tra gli olivi li conduce a un edificio di recente costruzione circondato dai campi, con le pareti bianche e il tetto in legno spiovente.
E' il frantoio culturale "Olivicola degli Ernici", dove passeranno le prossime ore a fare guardare come viene prodotto l'olio novello dei Monti Ernici.


"Ma perché frantoio culturale?"
"E' scritto qui, leggi: Chiamateci visionari, ma crediamo che la cultura sia alla base di un prodotto di qualità. Per questo il nostro è un frantoio culturale. Olivicola degli Ernici nasce dal bisogno di creare un luogo capace di trasmettere amore per l'olio e legame con il territorio. Oltre alla produzione dell'olio con macchinari all'avanguardia, un'area è dedicata alla cultura, alle degustazioni di olio, ai corsi. Tutto questo muove il nostro progetto."
"Interessantissimo. E guarda quante attività: corsi di formazione, eventi culturali legati sia al mondo olivicolo che al territorio, degustazioni guidate... e anche le visite al Museo dell'Olio "Pietro Capriati"! A proposito, dov'è questo museo?"
"In paese, nel frantoio medievale. Risale al 1100 e recentemente è stato restaurato ed è visitabile."
"Ehi, leggi qui! L'olio che producono è biologico! Hai capito, amore? Biologico! Non è..."
"... meraviglioso, sì, è me-ra-vi-glio-so! L'Olivicola degli Ernici gestisce centocinquanta ettari di terreno qui in zona, in parte recuperati e destinati alla produzione di olio extravergine di oliva, e sì, per la cura di tutti gli oliveti si impiegano i metodi dell'agricoltura biologica. Però qui al frantoio fanno anche molitura di olive per conto di terzi, quindi lavorano anche le olive dei produttori locali che non aderiscono alla loro rete. Ma hai intenzione di leggere dépliant per tutta la giornata? Stanno arrivando le olive, quindi ti suggerisco di preparare la tua attrezzatura da foodblogger e di seguirmi fuori!"


Uno con la macchina fotografica e l'altra con quadernino e penna a sfera, i due foodblogger della Palude si spostano all'esterno del frantoio, cercando un punto dal quale poter osservare senza intralciare il lavoro degli addetti alla produzione.
Il piazzale dove si svolgono le prime operazioni della molitura è pieno di grandi casse di plastica impilate. Al margine dell'area esterna è ferma un'auto, dalla quale alcuni uomini scaricano diversi sacchi pieni di olive, che vengono svuotati nelle casse più vicine. Ogni cassa viene pesata, quindi il contenuto viene rovesciato all'interno di una macchina che dapprima separa le olive da foglie e rametti, scartando quelle non idonee ad essere frante, e poi ne effettua il lavaggio e le avvia a un frangitore a martelli che le riduce in pasta, inglobando anche, attraverso l'operazione di frangitura, l'ossigeno necessario per l'avvio delle reazioni enzimatiche.
Chi scattando a raffica, chi scrivendo freneticamente, i due foodblogger della Palude seguono tutto il percorso delle olive. Le vedono salire e scendere sui nastri trasportatori, le vedono scomparire nel corpo rumoroso della macchina che soffia fuori foglie, piccoli rami e olive guaste per uscirne infine passando sotto un getto d'acqua, cadere nella vasca di raccolta del frangitore, e ridotte in pasta passare attraverso un tubo e scomparire misteriosamente al di là di una parete.
"Dentro, presto! Stanno andando alle vasche!"


I due foodblogger della Palude si precipitano nell'area coperta del frantoio appena in tempo per vedere la pasta di olive, spinta da una pompa, riversarsi all'interno della prima di sei grandi vasche in acciaio collocate una accanto all'altra. Sporgendosi al di sopra della prima vasca per spiare da uno sportellino di vetro, i due foodblogger intravedono all'interno una sorta di elica a pale che mescola la pasta di olive.


"Quella è una gramolatrice."
I due foodblogger della Palude si voltano di scatto, mentre alle loro spalle compare Franco, un uomo sorridente e gioviale.
"La gramolatrice rimescola la pasta di olive per un tempo che dipende dal tipo di oliva e alla temperatura controllata di ventisette gradi. Questa lavorazione permette che si sprigionino gli aromi prodotti da una reazione enzimatica chiamata lipossigenasi. Avvicinatevi!"
Franco apre una sorta di piccolo sfiatatoio posto sulla sommità della prima vasca.
"Ecco, da qui possiamo controllare i profumi sviluppati dalla gramola. Sentiteli anche voi!"
I due foodblogger aspirano voluttuosamente i sentori erbacei che salgono su dalla pasta di olive in lavorazione.
"La gramolazione serve anche a rompere i vacuoli, ossia le microvesciche che contengono l'olio, e a far aggregare le molecole di olio in gocce abbastanza grandi da permettere la successiva decantazione, in quella macchina laggiù. E ora, guardate, sta avvenendo il lavaggio automatico dell'attrezzatura che ha caricato la pasta di olive nella prima gramolatrice, comandato da un'elettrovalvola. Queste sei gramolatrici possono lavorare in parallelo, e ogni fase di lavorazione è comandata da quel computer che vedete al centro della sala. Seguitemi!"


Franco si avvicina a uno schermo collocato su una colonnina e lo tocca con un dito.
"Adesso sto mandando la pasta di olive contenuta nella prima gramolatrice al decanter, che è quel grosso cilindro che vedete là in fondo. Subito dopo la vasca verrà sottoposta a un lavaggio grossolano. Se però la partita di olive appena uscita dalla gramolatrice è di qualità scadente, effettuiamo un lavaggio a fondo... E prima di usare la gramolatrice per lavorare olive biologiche, beh, allora laviamo a fondo l'intero impianto, ossia l'intero frantoio!"
(E' superfluo precisare quale dei due foodblogger della Palude viene colpito maggiormente da quest'ultima informazione...)
"Nel decanter l'olio viene separato mediante centrifugazione dall'acqua di vegetazione delle olive e dall'acqua di processo che aggiungiamo noi alla pasta di olive che entra nel decanter per renderla meno vischiosa. L'acqua viene poi scartata, e si scarta anche la sansa, cioè il residuo solido delle olive. Ecco, vedete questi due tubi che escono dal decanter? Da uno esce l'olio e dall'altro l'acqua, mentre la sansa esce da un terzo tubo che la porta all'esterno del frantoio. E adesso andiamo a vedere l'olio!"


I due foodblogger della Palude seguono Franco che mostra loro un'altra macchina.
"Questa è una centrifuga verticale che elimina le ultime tracce di acqua presenti nell'olio. E ora..."
Un rivolo verde chiaro esce dal tubo collegato al macchinario, e nella vasca di raccolta posta al di sotto inizia a formarsi uno specchio di un verde sempre più intenso...


Al calar del sole il frantoio si riempie del va e vieni di chi porta le olive raccolte durante la giornata, di chi ritira i fusti colmi dell'olio appena prodotto, di chi si affaccia e sbircia dalla porta d'ingresso, e di chi, interessato e curioso, vorrebbe assistere alla molitura delle proprie olive.
Nella zona dedicata all'accoglienza si offre il pane fresco del forno del paese innaffiato con l'olio novello, mentre tutto l'edificio si va colmando dei profumi intensi e inebrianti delle olive spremute.
I profumi che i due foodblogger portano ancora nelle narici, nel viaggio di ritorno verso la Palude, insieme a due bottiglie di Ernico.
"Ricordo che da piccolo i miei genitori mi portavano al frantoio quando consegnavano le loro olive... In fondo al frantoio c'era un camino e noi ci abbrustolivamo il pane... e poi quando usciva l'olio nuovo io correvo lì con la mia fetta e ce la mettevo sotto..."
"Ora non si può certo fare, per ragioni igieniche. Però la bruschetta con l'olio novello ce la possiamo sempre preparare a casa... Anzi, sai che ti dico? Appena rientriamo mi metto a impastare il pane, e vedrai se non sarà profumato quanto l'olio novello!"


Filone rustico con farina integrale a lievitazione naturale



Ingredienti:
Per l'impasto
40 g di licoli (lievito naturale liquido; l'ho usato freddo di frigo e a due giorni dall'ultimo rinfresco, ma anche appena rinfrescato funziona benissimo!)
300 g di farina semintegrale (Mulino Marino)
100 g di farina integrale (Antiqua)
275 g di acqua
4 g di sale fino
2 cucchiai di olio extravergine d'oliva
1 cucchiaino di malto d'orzo fluido
Per la lavorazione e lo spolvero
semola rimacinata di grano duro

Idratazione: 70%

Preparazione:
Autolisi
Con una frusta a mano mescolate le farine in una ciotola, unite 220 g di acqua e mescolate grossolanamente: non dovete impastare, ma soltanto idratare la miscela di farine. Dovrete ottenere un composto grossolano e grumoso, senza farina asciutta sul fondo della ciotola. Copritelo con la pellicola e dimenticatelo per un'ora. Durante questo tempo avverrà la cosiddetta autolisi: nell'impasto grezzo comincerà a formarsi spontaneamente la maglia glutinica per effetto del contatto tra la farina e l'acqua, il che ci permetterà di risparmiare un bel po' di lavoro durante l'impastamento. I tempi dell'autolisi vanno da un minimo di 30-40 minuti a un massimo di 3-4 ore.
Stavolta, dopo aver tenuto la ciotola con l'impasto in autolisi a temperatura ambiente per un'ora circa l'ho messa per mezz'ora nel frigo, in modo da abbassare la temperatura dell'impasto in vista della lavorazione con la planetaria.
Impasto
Mescolate il licoli con il malto e un po' dell'acqua rimasta.
Versate il composto autolitico nella ciotola della planetaria e unite il licoli.
Montate la foglia e cominciate a impastare alla velocità minima, aggiungendo l'acqua rimanente un goccino per volta, senza aggiungerne altra finché la precedente non sarà stata del tutto assorbita dall'impasto: quest'ultimo dovrà essere tutto attaccato alla foglia e il fondo della ciotola pulito e asciutto. Insieme all'ultima acqua aggiungete anche il sale.
Aumentate la velocità della planetaria a 1 e aggiungete l'olio, versandolo a filo pochissimo per volta e facendolo scorrere lungo le pareti della ciotola. Aspettate sempre che l'olio versato venga assorbito dall'impasto prima di versarne altro.
Aumentate la velocità a 2 e impastate finché l'impasto non sarà diventato liscio e non riuscirete a tirarne un pezzetto senza che si stracci immediatamente. Se poi, allargando un pezzetto di impasto tra le dita, vedrete che forma il cosiddetto "velo", ancora meglio perché lo avrete incordato bene.
Quando sarete quasi a questo punto, potete sostituire la foglia con il gancio e impastare a 2 per uno-due minuti. Non eccedete, però, perché rischiate di rompere la maglia glutinica.
Durante la lavorazione controllate la temperatura del pane: se raggiunge i 26° fermatevi e raffreddate l'impasto in frigo per una mezzora, poi riprendetelo e continuate a lavorarlo.
Alla fine, rimettete l'impasto nella sua ciotola, copritelo con un piatto e lasciatelo riposare per 15 minuti.
Pieghe in ciotola
Versate un filino d'olio lungo la circonferenza della ciotola per ungere lievemente l'impasto lungo il bordo, se vi sembra necessario, e fate un giro di pieghe in ciotola (guardate questo video), poi coprite la ciotola con il piatto e lasciate riposare l'impasto per 10 minuti.
Effettuate un secondo giro di pieghe e un secondo riposo di 10 minuti, poi un terzo giro di pieghe, al termine del quale lascerete riposare l'impasto per 30 minuti, sempre coprendo la ciotola con il piatto.
Pieghe di rinforzo e pirlatura
Rovesciate l'impasto su un piano di lavoro spolverato di semola rimacinata e allargatelo, picchiettandolo con i polpastrelli lungo i bordi e al centro, fino a dargli una forma quadrangolare, e praticate un giro di pieghe di rinforzo come mostrato in questo video (fate tutto come nel video, senza però ribaltare l'impasto dopo il giro di pieghe e senza riporlo ogni volta a riposare nella ciotola).
Coprite l'impasto con la ciotola rovesciata e lasciatelo riposare per 30 minuti.
Praticate un secondo giro di pieghe di rinforzo e un secondo riposo di 30 minuti, sempre coprendo l'impasto con la ciotola, poi un terzo giro di pieghe e una pirlatura, come spiegato in questo video.
Ora potete scegliere se mettere l'impasto in frigo per la maturazione e rimandare formatura, lievitazione e cottura al giorno dopo, oppure se formare subito il filone, aspettare che lieviti e cuocerlo, oppure ancora se formare il pane e metterlo in frigo per la maturazione già bello formato, pronto a lievitare... il giorno dopo!
Se decidete di mettere l'impasto in frigo per la maturazione e rimandare formatura, lievitazione e cottura al giorno seguente, subito dopo la pirlatura depositate l'impasto nella ciotola, coprite con la pellicola e mettetelo nella parte più fredda del frigo. La mattina seguente fate tornare l'impasto a temperatura ambiente, poi rovesciatelo sul piano di lavoro e formatelo.
Formatura
Per formare il pane a filone, trasferite l'impasto su un piano di lavoro spolverato con la semola rimacinata, staccatene un pezzettino che userete come spia di lievitazione e allargate il resto dell'impasto delicatamente con i polpastrelli formando un rettangolo con il lato corto rivolto verso di voi.
Ripiegate gli angoli superiori del rettangolo verso il centro fino a unirli e cominciate ad arrotolare il rettangolo partendo dall'alto, serrando bene l'impasto in basso con i pollici (se non serrate bene l'impasto, il rotolo in formazione incorporerà aria che farà poi "srotolare" la fetta!) mentre con il palmo delle mani accompagnate il rotolo che state formando senza però pressarlo né schiacciarlo.

Fotografie di un altro impasto

Una volta arrotolato l'impasto, ruotatelo di 90° portando la piega di chiusura verso l'alto, allargatelo di nuovo con le dita, delicatamente (farà un po' di resistenza e lo sentirete più duro e sodo sotto le mani), e arrotolate nuovamente nello stesso modo.

Fotografie di un altro impasto

Sigillate bene la chiusura del rotolo strusciandola contro il piano di lavoro e deponetelo in uno stampo da plumcake, nel quale avrete già steso un canovaccio pulito e abbondantemente spolverato di semola, con la chiusura rivolta verso l'alto. Spolverate generosamente di semola anche il rotolo, dopodiché copritelo ripiegando i lembi del canovaccio e lasciatelo lievitare finché non sarà raddoppiato di volume.
Se decidete di rimandare la lievitazione e la cottura al giorno seguente, infilate lo stampo con l'impasto formato e coperto dal canovaccio in una busta di plastica, chiudetela bene e riponetela insieme alla spia di lievitazione nella parte più fredda del frigo fino al giorno dopo, quando procederete con la lievitazione e la cottura.
Cottura
Accendete il forno al massimo, con una teglia in ferro (non antiaderente, perché il rivestimento antiaderente non resiste alle alte temperature) sul fondo. Ponete una griglia sul livello centrale e appoggiatevi un pentolino con un po' di acqua calda dentro, per creare umidità nel forno e permettere al pane di espandersi nella fase iniziale della cottura.
Al raggiungimento della temperatura togliete la teglia rovente dal forno, spolveratela di semola e ribaltatevi sopra l'impasto, rovesciando lo stampo. Cospargetelo di semola, praticate dei tagli sulla superficie con una lametta affilata e infornatelo sul fondo del forno a 250° per 10 minuti.
Abbassate la temperatura a 200°, togliete dal forno il pentolino e continuate la cottura per altri 10 minuti.
Portate la teglia sul ripiano centrale del forno e cuocete il pane a 200° con la ventilazione e tenendo uno spiraglio aperto nello sportello del forno, per 15-20 minuti (calcolate 10 minuti in più se volete la crosta più spessa e croccante).
Estraete il pane dal forno e lasciatelo raffreddare in verticale, appoggiato alla parete: in questo modo il vapore fuoriuscirà soltanto dalla punta del filone, senza ammorbidire la crosta.
Aspettate che sia freddo prima di tagliarlo, altrimenti il vapore contenuto all'interno del pane fuoriuscirà attraverso il taglio bagnando la mollica e rovinandola.
Quando sarà ben freddo affettatelo e cospargetelo di profumatissimo olio novello come se piovesse...


... magari davanti a un panorama come questo:


Questa ricetta partecipa alla raccolta di Dicembre 2015 di Panissimo, raccolta mensile ideata da Sandra e da Barbara e questo mese ospitata da Barbara.


venerdì 18 dicembre 2015

Datteri al gorgonzola con noci e miele

Una sera qualunque, in un supermercato della Palude.
Freddo, stanchezza e voglia di una cena che si prepari da sola.
Di qualcuna di quelle cose che si estraggono da una scatola, si dispongono su una teglia e si infilano nel forno, e poi ci pensa lui.
Il bancone dei surgelati mi parla come il menù di un ristorante stellato.
Lo scorro con gli occhi, e mi soffermo su una scatola di totani parallelepipedali ricoperti da una croccante pellicina arancione.
Ho scelto, ma non posso esimermi dal leggere gli ingredienti riportati sull'etichetta.
Tutte parole che conosco, per fortuna.
Fino all'ultima frase.
Non so se ridere o allarmarmi.
Può contenere tracce di pesce...

Datteri al gorgonzola con noci e miele



Ingredienti:
datteri giganti
gorgonzola dolce
gherigli di noce, divisi in quarti
miele di acacia o castagno o quello che preferite

Preparazione:
Incidete i datteri per il lungo e denocciolateli facendo attenzione a non dividerli a metà.
Lavorate il gorgonzola per renderlo cremoso e farcite i datteri allargandoli delicatamente a libro. Richiudeteli pressando leggermente le due metà, lisciate la farcitura e ripuliteli bene eliminando le sbavature di formaggio.
Appoggiate un quarto di gheriglio sulla farcitura e completate facendo colare un filino di miele sulla noce.
Serviteli nei cucchiaini da finger food.


Non so a voi, ma mentre guardo questa foto mi viene in mente come l'eco di una poesia... Il dattero solitario! :D :D :D


Questa ricetta partecipa al 100% GLUTEN FREE FRI(DAY) di Gluten Free Travel and Living.

I Love Gluten Free (FRI)DAY – Gluten Free Travel & Living

venerdì 11 dicembre 2015

Cavolo rosso speziato con cipolle e mele

Molti pensano che le parole non abbiano importanza.
Nove dicembre duemilaquindici, in una strada qualunque del capoluogo della Palude.
Cammino per strada e noto un manifesto che riporta una scritta a caratteri cubitali.
Si riferisce al mercato che da decenni si tiene in città ogni settimana.
Una vasta distesa ambulante di ortofrutta, casalinghi, abbigliamento nuovo e usato a pochi (una volta) soldi.
I venditori arrivano da tutta la provincia.
Gli acquirenti, anche.
Quello che da sempre è noto in tutta la zona come il mercato del martedì adesso si chiama centro commerciale all'aperto.
Fa tutto un altro effetto, non trovate?
E poi dicono che le parole non hanno importanza!

Siccome noi di Cum Gaudio Magno riteniamo invece che le parole di importanza ne abbiano, eccome, vogliamo condividere con i nostri lettori alcune riflessioni sull'uso di una parola molto in voga ultimamente.
Tanto per essere sicuri di usarla nel modo giusto!
Grazie, come sempre, a Unaparolaalgiorno.it.
Outing 
Significato: "Pratica che consiste nel rivelare il segreto orientamento di una persona" 
Voce inglese, costruita a partire dall'avverbio out "fuori", presente nell'espressione coming out, e trasformato nel verbo transitivo to out "buttare fuori". Altrimenti, outing ha anche il significato di "gita, escursione". 
Una parola usata il più delle volte a sproposito, che ci fa fare la figura dei provincialotti. 
Infatti questo termine viene spesso usato erroneamente per indicare il coming out, cioè la rivelazione del proprio orientamento sessuale (specie se omosessuale); invece, si tratta di una pratica, giornalistica e politica, che consiste nel rivelare l'orientamento sessuale di una persona, che questa aveva tenuto nascosto. La metafora che sostiene queste espressioni è quella dell'armadio (in inglese, closet, che ha anche il significato figurato di "segreto"), una metafora forte e delicata con cui si indica la costrizione e la riservatezza del vivere nascostamente la propria sessualità: il coming out, il "venire fuori", si riferisce al coming out of the closet, cioè all'"uscire dall'armadio". L'outing, invece, diventa il "buttare fuori dall'armadio", senza la volontà della persona.
L'intento dell'outing è pettegolo nelle migliori delle ipotesi, denigratorio nelle peggiori. E' una cifra importante dei nostri tempi: essere incuriositi dalla sessualità altrui, anche un po' morbosamente, è una normale tendenza umana; ma si tratta di un interesse adolescenziale. Una sua piega scandalistica è sintomo di un approccio poco e immaturo, e dà la vertigine pensare alla povertà di chi ha urgenza di parlare delle inclinazioni sessuali altrui. 
Va detto che, nell'uso comune, con outing si intende anche una qualunque rivelazione che qualcuno fa di un proprio segreto, specie amoroso: ad esempio il collega può fare outing rivelando a tutti che sta da mesi con la segretaria. Un uso improprio di un uso improprio: se prende piede i gendarmi non intervengono, ma, rimanendo una voce inglese, rispetto al panorama internazionale è davvero un significato inconsueto - e finisce per essere, appunto, un po' provinciale.
Dopotutto, il grosso problema degli anglicismi in italiano è che gli italiani non sanno l'inglese.
E spesso, purtroppo, neanche l'italiano.
In fondo, chi l'ha detto che le parole hanno importanza?

Cavolo rosso speziato con cipolle e mele



ricetta originale di Martha Stewart
incrociata con una ricetta di Gordon Ramsey vista qui

Ingredienti per 4 persone:
15 g di burro (oppure olio extravergine d'oliva, per la versione vegana e senza latte)
1 cipolla media, affettata
1 mela Gala biologica con la buccia, affettata
1 cavolo rosso di 1 kg, affettato sottilmente, senza la parte dura centrale
sale
45 ml di aceto di mele
15 g di zucchero mascobado (vedi qui)
120 ml di acqua
2 foglie di alloro
2 bacche di anice stellato
5 chiodi di garofano

Preparazione:
In una pentola ampia e col fondo pesante sciogliete il burro a fuoco medio.
Unite la cipolla e la mela e cuocete con il coperchio per circa 5 minuti, mescolando ogni tanto.
Aggiungete il cavolo rosso e il sale, poi l'aceto, lo zucchero e l'acqua, e infine le spezie (consiglio di legare un pezzo di filo da cucina intorno a ogni chiodo di garofano per poi ritrovarli tutti facilmente ed eliminarli a cottura ultimata, e non essere costretti a ravanare nella pentola per mezzora alla loro ricerca).
Portate a bollore e lasciate sobbollire con il coperchio per circa 20-25 minuti, finché il cavolo rosso non è tenero. Regolate di sale.

Questo piatto è un contorno che accompagna molto bene piatti di carne come il maiale arrosto e l'onnipresente tacchino americano. E' ottimo servito sia caldo che tiepido e se preparato con un giorno di anticipo ne guadagna in sapore. Un po' meno nell'estetica, perché le mele assumono lo stesso colore... del cavolo! :D
Il tempo di cottura indicato, seppure breve, è perfetto per ottenere un cavolo (ancora!) tenero ma non moscio, consistente ma non croccante, soprattutto se lo si prepara con un paio d'ore di anticipo e lo si lascia nella pentola coperta.

Questa ricetta del cavolo partecipa al 100% GLUTEN FREE FRI(DAY) di Gluten Free Travel and Living.

I Love Gluten Free (FRI)DAY – Gluten Free Travel & Living

venerdì 27 novembre 2015

Bocconcini fondenti alla crema di cacao e nocciole

Un post su Facebook, condiviso da chissà chi.
Una ricetta in francese, con una foto di dolcetti scuri e un titolo fatto apposta per adescare chiunque.
Biscotti alla notissima crema spalmabile al cacao e nocciole con solo tre ingredienti.
E chi non la conosce, la notissima!
E soprattutto, chi non ha in casa quei tre ingredienti?
Un uovo, un po' di farina e un barattolo di notissima.
Non ho mai usato la notissima in cucina, a dire la verità.
Non mi piace nei dolci, a dirla tutta.
Però quegli affarini scuri e rotondi che mi guardano dallo schermo del portatile mi intrigano.
Leggo la ricetta.
E' di una semplicità disarmante.
Mescolare, fare palline e infornare.
E quei tre ingredienti che tutti abbiamo in casa.
E' una di quelle ricette un po' ruffiane fatte apposta per irretire i lettori e intrappolarli nelle maglie del desiderio e della curiosità.
Mi sento intrappolata anch'io, guarda un po'.
Vogliamo vedere quanti dei miei venticinque sessantuno lettori riuscirà a sedurre? ;o)


Devo fare una confessione.
Io la notissima in casa non l'avevo.
L'ingrediente fondamentale mi mancava e sono uscita apposta per cercarlo.
E quando l'ho trovato, beh, non era la notissima, ma una di quelle che ormai da tempo hanno preso il suo posto in casa Gaudiomagno.
Questione di gusti... e di etichetta!

Bocconcini fondenti alla crema di cacao e nocciole



Ingredienti per circa 26 pezzi:
1 uovo medio, a temperatura ambiente
230 g di crema di cacao e nocciole (ho usato la Novi, e la consiglio per il sapore e per gli ingredienti)
130 g di farina 00
zucchero in granella per decorare

Preparazione:
In una ciotola amalgamate bene l'uovo con la crema di cacao e nocciole, mescolando con una frusta elettrica a bassa velocità.
Unite la farina, poca per volta, setacciandola e incorporandola bene con un cucchiaio di legno o con una spatola o con le mani, vedete voi.
Formate con il composto delle palline di 16 g ognuna. Per farle tutte uguali, appoggiate un piatto su una bilancia e deponetevi sopra dei mucchietti di impasto prelevandoli con l'aiuto di due cucchiaini, poi compattate ogni mucchietto nel palmo della mano e arrotondatelo. Il composto sarà molto morbido e rilascerà olio, non vi spaventate se vi ritrovate con le mani unte. L'olio si asciugherà con la cottura.
Appoggiate ogni pallina sullo zucchero in granella per farlo aderire e poi deponete le palline su una teglia ricoperta di carta da forno.
Mettete la teglia con le palline in frigo mentre riscaldate il forno. Cuocete in forno statico a 180° per 8 minuti, non uno di più. Sfornate e lasciate raffreddare i bocconcini prima di spostarli. Appoggiateli su un foglio di carta da cucina per eliminare ogni traccia di olio dalla base.
Appena cotti sono divini, sono profumatissimi e hanno una morbidezza che ricorda le torte fondenti.
Con il passare del tempo tendono a indurire leggermente, perciò se potete non conservateli e fateli sparire il più presto possibile!


La versione originale della ricetta prevede di schiacciare leggermente ogni pallina prima di infornare la teglia e di praticarvi, con il manico di un cucchiaio di legno, una piccola cavità circolare destinata ad essere riempita, dopo il raffreddamento, con un ciuffetto di notissima da far scendere da una sac-à-poche.
Si possono anche far rotolare le palline nello zucchero, a  velo o semolato, subito prima di cuocerle.
Se si desiderano dei biscottini più dolci si può aggiungere un po' di zucchero all'impasto; io non l'ho fatto perché la crema di cacao ne contiene già abbastanza, specialmente la notissima.

venerdì 13 novembre 2015

Insalata di lenticchie con brunoise di verdure e salsa di yogurt alla senape

Un giorno d'autunno qualunque, nel primo pomeriggio.
Il sole ancora caldo splende sul mare, ricoprendolo d'argento.
Le onde vanno e vengono, incessantemente.
Sulla battigia, orme di cani e di piedi calzati, resti di alghe e di piccole meduse.
Qualche pozza d'acqua dimenticata dalla marea, col fondo di sabbia raggrinzito dalla corrente.
Una bimba raccoglie conchiglie e sassolini insieme alla mamma.
Tra le cabine di uno stabilimento balneare deserto, due ragazzi si scambiano baci e tenerezze.
Guardo la spiaggia deserta e ho nostalgia dell'estate.
Asciugamani su cui distendersi, creme solari da spalmare, ombrelloni aperti alla brezza marina, la pelle che si dora nel lento e caldissimo bagno di sole, le camminate con i piedi nell'acqua e l'aria fresca del tramonto.
Adesso la spiaggia è tutta per i cultori del kite surf.
Odo solo la voce dell'acqua e i richiami dei gabbiani.
E questa canzone che mi risuona in mente ad ogni passo sulla sabbia bagnata...

Il mare d'inverno
è solo un film in bianco e nero visto alla tivù
e verso l'interno
qualche nuvola dal cielo che si butta giù
sabbia bagnata
una lettera che il vento sta portando via
punti invisibili rincorsi dai cani
stanche parabole di vecchi gabbiani
e io
che rimango qui solo
a cercare un caffè.

Il mare d'inverno
è un concetto che il pensiero non considera
è poco moderno
è qualcosa che nessuno mai desidera
alberghi chiusi
manifesti già sbiaditi di pubblicità
macchine tracciano solchi su strade
dove la pioggia d'estate non cade
e io
che non riesco nemmeno
a parlare con me.

Mare, mare,
qui non viene mai nessuno a trascinarmi via
mare, mare,
qui non viene mai nessuno a farci compagnia
mare, mare,
non ti posso guardare così, perché
questo vento agita anche me
questo vento agita anche me.

Passerà il freddo
e la spiaggia lentamente si colorerà
la radio, il giornale
e una musica banale si diffonderà
nuove avventure
discoteche illuminate piene di bugie
ma verso sera uno strano concerto
e un ombrellone che rimane aperto
mi tuffo
perplesso in momenti
vissuti di già.

Mare, mare,
qui non viene mai nessuno a trascinarmi via
mare, mare,
qui non viene mai nessuno a farci compagnia
mare, mare,
non ti posso guardare così, perché
questo vento agita anche me
questo vento agita anche me
questo vento agita anche me
questo vento agita anche...

(Enrico Ruggeri, Il mare d'inverno)

Questo piatto l'ho preparato d'estate, ma va bene in qualsiasi periodo dell'anno, visto che non ci sono ingredienti legati a una particolare stagione.
Le quantità sono a piacere vostro.
Potete accompagnarlo con pane, con cereali o con niente.
Io ho scelto l'avena precotta, che non scuoce e si sposa bene con la nota croccantina data dalle verdure.
Se non trovate avena certificata senza glutine, sostituitela con del riso che non si ammorbidisca troppo in cottura.

Insalata di lenticchie con brunoise di verdure e salsa di yogurt alla senape



Ingredienti per 2 persone:
Per le lenticchie:
150 g di lenticchie secche
2 coste di sedano
2 carote medie
mezza cipolla
2 foglie di salvia fresca
1 foglia di alloro
100 g di avena precotta (o riso, se il glutine è un problema)
Per la salsa:
150 g di yogurt bianco intero
30 g di senape dolce
erbe aromatiche fresche o secche (erba cipollina, prezzemolo, basilico, menta...)
qualche rametto di timo fresco per decorare

Preparazione:
Sciacquate le lenticchie e cuocetele secondo le istruzioni riportate sulla confezione, aggiungendo all'acqua della lessatura 1 costa di sedano, 1 carota, la cipolla, la salvia e l'alloro. Una volta cotte, scolatele e fatele raffreddare.
Lessate l'avena (o il riso) per il tempo indicato sulla confezione, scolatela un po' al dente e mescolatela con le lenticchie.
Tagliate a pezzetti l'altra carota e l'altra costa di sedano, tenendo da parte un pezzetto di carota e un pezzetto di sedano dai quali ricavare una brunoise, ossia dei dadini di piccole dimensioni e di forma regolare e omogenea (l'ho imparato al corso di cucina, fatemela tirare un po'!): con un coltello affilato tagliate a metà nel senso della lunghezza il pezzetto di carota e il pezzetto di sedano, poi appoggiateli sul tagliere dal lato del taglio e da ogni metà ricavate delle fettine, da ogni fettina delle striscioline e da ogni strisciolina dei cubettini.
Tenete da parte la brunoise e unite il resto delle verdure a pezzetti alle lenticchie e all'avena.
Preparate la salsa mescolando con una forchetta lo yogurt con la senape e le erbe aromatiche tritate. Versate la salsa sull'insalata, distribuitela in modo omogeneo e regolate di sale.
Fate riposare l'insalata al fresco per qualche ora, dopodiché disponetela in un piatto di servizio e completatela con la brunoise tenuta da parte e i rametti di timo.


Questa ricetta partecipa al 100% GLUTEN FREE FRI(DAY) di Gluten Free Travel and Living.

I Love Gluten Free (FRI)DAY – Gluten Free Travel & Living

giovedì 5 novembre 2015

La mia torta di zucca e noci al profumo di vermouth con crumble di noci tostate... e i crumbiscotti alle noci



In principio erano frittelle di zucca.
Una ricetta mostrata in uno di quei programmi che insegnano a cucinare a noi che siamo a casa, in un'epoca in cui io ero a casa e non sapevo (ancora) cucinare.
Uova, farina, zucchero, cacao, polpa di zucca e qualcos'altro, tutto mescolato insieme e trasformato in frittelle.
Una combinazione di ingredienti insolita per l'epoca in cui non sapevo (ancora) cucinare, e che mi intrigava irresistibilmente. Però...
... però io le frittelle non le so fare!
Confesso di non aver mai preso confidenza con l'olio bollente.
Quanto alle frittelle di zucca, non videro mai la luce nella mia cucina, ma in quel giorno lontano ebbi un'idea che mi permise di assaporare quell'insieme di sapori senza espormi al pericolo di riportare ustioni di vario grado sulle zone del corpo scoperte.
Se aumentassi la quantità di farina e aggiungessi una bustina di lievito... potrei riadattare la ricetta della torta di mele di mia madre e trasformare l'impasto delle frittelle nell'impasto di una torta!
Concretizzai l'idea a tempo di record.
Pochi giorni dopo tagliavo la prima fetta della mia nuovissima torta di zucca, all'ora del tè, alla presenza dei familiari riuniti in cucina per l'assaggio.
Buona... soffice... però il cacao copre gli altri sapori e questo non va bene... la rifarò mettendone una quantità minore...
Seconda prova e secondo assaggio, alla presenza del marito e di non ricordo chi.
Buona... morbida... ora gli altri sapori si sentono... però non si sente il cacao, è troppo poco... la rifarò omettendolo del tutto...
All'assaggio della terza prova era presente solo il marito.
Buona... morbida... e che bel colore, giallo intenso... ho fatto bene a non mettere il cacao... però ci vorrebbe qualcosa di croccante... la rifarò aggiungendo delle noci...
Alla quarta prova la pazienza del marito era agli sgoccioli.
Buona... soffice... colore dorato... e che buona, questa nota croccante data dalle noci... però non ci siamo ancora... manca un sapore...
La quinta prova si fece attendere.
E non soltanto perché il marito guardava ormai con sospetto qualunque zucca entrasse in casa.
Mancava un sapore.
E io dovevo capire quale!
Ci pensai per giorni interi.
L'illuminazione arrivò, come talvolta accade, in piena notte.
Il vermouth!, esclamai mentalmente sbarrando gli occhi nel buio.
Il vermouth, che faceva parte dei sapori della mia infanzia grazie alla Zuppa inglese di nonna Sandrina.
Il vermouth, che per me era un liquido profumato contenuto in una bottiglia con su scritto Martini bianco, che stappavo al solo scopo di incollarvi il naso per il tempo più lungo possibile.
Il vermouth era la risposta che il mio cervello mi aveva suggerito, attingendo all'immenso serbatoio di esperienze che era la mia vita fino a quel momento.
Il vermouth, vino liquoroso aromatizzato con una miscela di erbe e spezie, mi consegnò finalmente la ricetta della torta di zucca perfetta!


Da quel giorno sono passati tanti anni, e tante torte sono state tagliate e assaggiate nella mia cucina.
Tante ricette sono state provate, tante tecniche sono state sperimentate.
La torta di zucca con le noci e il vermouth è stata dimenticata per anni, relegata in una cartella nascosta del mio computer.
Di tanto in tanto faceva capolino nella mia mente, ogni volta che vedevo la ricetta di una qualche torta di zucca su blog e riviste di cucina.
Anch'io facevo una torta con la zucca, tanti anni fa, ed era così buona, con quel profumo di vermouth e quella nota croccantina delle noci... E quel colore giallo di sole... Dovrò rifarla, prima o poi... Magari modifico un po' la mia vecchia ricetta... Meno zucchero... Vaniglia naturale... Più noci... Un pochino di olio in più per aumentare la morbidezza... Meno lievito... Magari sopra metto un crumble di noci tostate, così riprendo il gusto delle noci, inserisco un contrasto croccante alla morbidezza della base e aggiungo l'aroma del burro bavarese * che è la fine del mondo, ma che resta delicato visto che la torta è fatta con l'olio... E poi il crumble vuoi mettere quanto fa più figo rispetto al solo zucchero a velo... E magari... magari la pubblico sul blog!



Quest'ultima prova è stata tagliata e assaggiata nel salone di casa, alla presenza del marito e di due compagni di merende.
Dopo due giorni era sparita.
E manca ancora moltissimo a tutti!


Torta soffice di zucca e noci al profumo di vermouth con crumble di noci tostate, e crumbiscotti alle noci



* Le etichette "Dolci senza burro" e "Senza latte" si riferiscono alla torta di zucca preparata senza crumble.

Ingredienti per uno stampo a cerniera di 24 cm di diametro:
Per la base:
500 g di zucca intera, pesata cruda e con la buccia, privata di semi e filamenti; circa 250 g, una volta cotta e scolata
70 g di noci sgusciate
325 g di farina 00
1 bustina di lievito istantaneo
1 cucchiaino raso di cannella
1 pizzico di sale fino
3 uova
160 g di zucchero di canna semolato, aromatizzato alla vaniglia
90 g di olio extravergine di oliva delicato
100 ml di vermouth (Martini bianco)
burro e farina per lo stampo
Per il crumble: (questa dose è il doppio di quella necessaria per una teglia di 24 cm di diametro; con la metà avanzata dalla torta ho preparato una dozzina di crumbiscotti)
50 g di noci sgusciate
200 g di farina
100 g di zucchero di canna Demerara biologico
1 cucchiaino raso di cannella
1 pizzico di sale fino
120 g di burro bavarese a temperatura ambiente

Preparazione:
Crumble
Tostate le noci in un padellino a fuoco medio-basso per 4 minuti. Trasferitele in un piattino per farle raffreddare, poi tritatele grossolanamente al coltello.
Mescolate in una ciotola la farina con lo zucchero, la cannella e il sale, unite il burro tagliato a fettine sottili e lavorate il tutto con le mani fino a ottenere un  composto sbricioloso, dall'aspetto umido. Fate in modo di intridere bene di burro la farina.
Aggiungete le noci, mescolate, coprite la ciotola e mettetela in frigo mentre preparate la base.
Base
Alcune ore prima di preparare la torta (meglio ancora il giorno prima), avvolgete la zucca, intera e con la buccia, in un foglio di alluminio, chiudete bene il cartoccio e cuocete in forno a 200° per un'ora.
Fate raffreddare la zucca nel forno, poi con cautela aprite il cartoccio e tagliate a pezzi la zucca. Mettete ogni pezzo in uno schiacciapatate, con la buccia verso l'alto, e schiacciate, raccogliendo la polpa in uno scolapasta posto sopra una ciotola. Eliminate la buccia rimasta nello schiacciapatate e ripetete l'operazione fino a schiacciare tutta la zucca.
Lasciate scolare la polpa della zucca fino al momento di preparare la torta. Se cuocete la zucca il giorno prima, mettetela a scolare in frigo coprendo il tutto con un foglio di alluminio. Conservate l'acqua che cola dalla zucca: potrebbe servire nel caso che l'impasto della torta risultasse troppo denso, o potrete comunque usarla per una minestra o un'altra preparazione.
Preparate lo stampo. Pizzicate un foglio di carta da forno tra la base e il cerchio apribile, poi imburrate e infarinate sia la carta che l'anello della teglia.
Tostate le noci come spiegato sopra, spezzettatele con le mani una volta fredde e mettetele da parte.
In una ciotola mescolate la farina e il lievito setacciati con la cannella e il sale fino.
In un'altra ciotola sbattete le uova con lo zucchero. Sempre sbattendo, aggiungete a filo l'olio.
Incorporate la farina al composto di uova un po' alla volta, mescolando delicatamente e alternando la farina con il vermouth. Regolate la densità dell'impasto aggiungendo un po' di farina o un po' dell'acqua della zucca tenuta da parte: l'impasto deve "scrivere", ma non deve essere troppo denso e pesante.
Aggiungete le noci, mescolate e versate il composto nello stampo. Livellate senza sbattere la teglia e cospargete la superficie con il crumble preparato in precedenza.
Cuocete in forno statico preriscaldato a 170° per 70 minuti circa.
Sfornate e aspettate una decina di minuti prima di sformare la torta. Fatela raffreddare su una gratella e cospargetela con poco zucchero a velo.
Servitela con il tè o il caffè del pomeriggio, e se vi piace accompagnatela con un bel ciuffo di panna montata.


Mentre la torta cuoce, dedicatevi alla preparazione dei crumbiscotti, usando il crumble che avrete avuto cura di far avanzare!
Mettete 3 cucchiaini di crumble nei vani di uno stampo per muffin, pressando leggermente con le dita per compattare il composto, ma senza schiacciare troppo: i crumbiscotti devono essere... crumblosi, ossia costituiti da grosse briciole aggregate insieme.
Infornate i crumbiscotti non appena sfornate la torta e cuoceteli per 20 minuti, sempre in forno statico a 170°.


Potete preparare la torta di zucca e noci anche senza crumble: sarà comunque deliziosa.
E ovviamente potete preparare i crumbiscotti anche senza torta di zucca, e goderveli in qualunque momento della giornata!

martedì 27 ottobre 2015

Un po' duro, un po' tenero: il pane con la petarta, per nonna Rosina

Nonna Rosina era la nonna della Commare e in realtà si chiamava Rosaria, ma tutti la chiamavano nonna Sasà.
Io invece la chiamavo nonna Rosina perché per me lei aveva proprio il viso da nonna Rosina.


La incontravo ogni volta che andavo a fare la spesa, perché frequentavamo lo stesso piccolo supermercato nel centro della città e gli stessi banchi del mercato ortofrutticolo non distante da casa sua.
La vedevo percorrere le corsie del mercato al braccio di nonno Sandro, o la scorgevo ferma davanti al banco di un contadino mentre sceglieva la verdura da acquistare.
La chiamavo e lei mi rispondeva sempre con le stesse parole di saluto e lo stesso largo sorriso sul volto cordiale.
"Buongiorno, nonna Rosina!"
"Ciao! Comme se va?"


Nonna Rosina era una donna attiva e in cucina ci sapeva fare.
La Commare mi raccontava dei pranzi e delle cene che organizzava per riunire l'intera famiglia e dei manicaretti che preparava con le sue mani, e a me sembrava proprio di averli davanti, quei piatti, e persino di assaporarli e di respirarne il profumo.
Tagliatelle, cannelloni, ravioli, cappelletti, cicche del nonno, polenta, zuppe, arrosti, frittate, pizze di verdura, frittelle, verdure ripiene, crostate, biscotti, torte  farcite, zeppole, strufoli, frappe, castagnole prendevano vita al suono di quei racconti e sembravano danzare davanti ai miei occhi sgranati.


Nonna Rosina preparava tutto in casa, dalla pasta alla conserva di pomodoro.
Perfino le salsicce, nelle quali metteva quell'ingrediente che sapeva solo lei e del quale mai e poi mai avrebbe rivelato il segreto.
"Nonna, fantastiche queste salsicce, ma che c'è dentro?"
"La petarta."
"La petarta? E che cos'è la petarta?"
"La petarta... è la petarta!"


Nonna Rosina il pane lo faceva di rado e certo non ci metteva la petarta, ma io ho scelto di ricordarla così perché questo pane sa di antico, sa di forni di paese e di vicoletti pieni di scalini, di fumo di legna e di camini accesi, e sa di nonne e delle loro mani, operose e buone come era lei.
E soprattutto perché, da quando ho sentito delle salsicce di nonna Rosina, il coriandolo a casa mia si chiama petarta!

Pane a lievitazione naturale con grano duro e coriandolo



Ingredienti:
Per il prefermento
30 g di licoli
125 g di farina manitoba Mulino Marino
100 g di acqua
Per l'impasto
125 g di farina 0 Mulino Marino
250 g di semola rimacinata di grano duro Antico Molino Rosso
245 g di acqua (se usate farine diverse potrebbe servirne un po' di più o un po' di meno)
5 g di sale fino
1 cucchiaino di malto fluido
2 cucchiai di olio extravergine d'oliva
1 cucchiaio di semi di coriandolo
Per la lavorazione
semola rimacinata di grano duro
Per lo spolvero
farina di mais tipo fioretto

Idratazione: 70%

Preparazione:
Tostate i semi di coriandolo in un padellino antiaderente per 4 minuti su fuoco medio. Trasferiteli in un piattino, lasciateli raffreddare, poi polverizzateli in un mortaio e prelevatene un cucchiaino abbondante per la ricetta.
Prefermento
Versate la farina in una ciotola e mescolate con una frustina a mano per dissolvere eventuali grumi.
Formate un buco nel mezzo, versatevi il lievito e aggiungete l'acqua a poco a poco, mescolando bene con una forchetta per non creare grumi.
Trasferite il composto in un barattolo di vetro con le pareti dritte, chiudetelo con un coperchio, segnatene il livello con un elastico e lasciatelo fermentare finché non sarà raddoppiato di volume. Ci vogliono circa 12 ore, ma questo tempo varia a seconda della temperatura dell'ambiente, quindi dovrete controllare. Il mio, a una temperatura di 22°, è triplicato di volume in 8 ore circa. Il prefermento è pronto quando comincia a collassare al centro e sulla superficie si forma una piccola piega.
Autolisi
Circa un'ora prima di usare il prefermento, con una frusta a mano mescolate la farina 0 e la semola rimacinata in una ciotola, unite 210 g di acqua e mescolate grossolanamente: non dovete impastare, ma soltanto idratare la miscela di farine. Dovrete ottenere un composto grossolano e grumoso, senza farina asciutta sul fondo della ciotola. Copritelo con la pellicola e dimenticatelo per un'ora. Durante questo tempo avverrà la cosiddetta autolisi: nell'impasto grezzo comincerà a formarsi spontaneamente la maglia glutinica per effetto del contatto tra la farina e l'acqua, il che ci permetterà di risparmiare un bel po' di lavoro durante l'impastamento. I tempi dell'autolisi vanno da un minimo di 30-40 minuti a un massimo di 3-4 ore.
Impasto
Passata l'ora, versate il composto autolitico nella ciotola della planetaria e unite il prefermento, il coriandolo macinato, il malto e l'olio. Montate la foglia e cominciate a impastare alla velocità minima, aggiungendo l'acqua rimanente un goccino per volta, senza aggiungerne altra finché la precedente non sarà stata del tutto assorbita dall'impasto: quest'ultimo dovrà essere tutto attaccato alla foglia e il fondo della ciotola pulito e asciutto. Insieme all'ultima acqua aggiungete anche il sale.
Aumentate la velocità della planetaria a 1 e impastate, ribaltando l'impasto a mano un paio di volte nella ciotola della planetaria, finché l'impasto non sarà diventato liscio e non riuscirete a tirarne un pezzetto senza che si stracci immediatamente. Se poi, allargando un pezzetto di impasto tra le dita, vedrete che forma il cosiddetto "velo", ancora meglio perché lo avrete incordato bene.
Rimettete l'impasto nella sua ciotola, copritelo con un piatto e lasciatelo riposare per 15 minuti.
Pieghe in ciotola
Versate un filino d'olio lungo la circonferenza della ciotola per ungere lievemente l'impasto lungo il bordo e fate un giro di pieghe in ciotola (guardate questo video), poi coprite la ciotola con il piatto e lasciate riposare l'impasto per 10 minuti.
Effettuate un secondo giro di pieghe e un secondo riposo di 10 minuti, poi un terzo giro di pieghe, al termine del quale lascerete riposare l'impasto per 30 minuti, sempre coprendo la ciotola con il piatto.
Pieghe di rinforzo e pirlatura
Rovesciate l'impasto su un piano di lavoro spolverato di semola rimacinata e allargatelo, picchiettandolo con i polpastrelli lungo i bordi e al centro, fino a dargli una forma quadrangolare, e praticate un giro di pieghe di rinforzo come mostrato in questo video (fate tutto come nel video, senza però ribaltare l'impasto dopo il giro di pieghe e senza riporlo ogni volta a riposare nella ciotola).
Coprite l'impasto con la ciotola rovesciata e lasciatelo riposare per 30 minuti.
Praticate un secondo giro di pieghe di rinforzo e un secondo riposo di 30 minuti, sempre coprendo l'impasto con la ciotola, poi un terzo giro di pieghe e una pirlatura, come spiegato in questo video.
Dopo la pirlatura avete due possibilità: mettere l'impasto in frigo per la maturazione e rimandare formatura, lievitazione e cottura al giorno dopo, oppure formare subito il filone o la pagnotta, aspettare che lieviti e cuocerlo.
Io ho scelto la terza opzione (eheheh...): formare il pane e metterlo in frigo per la maturazione già bello formato, pronto a lievitare... il giorno dopo!
Ma andiamo con ordine.
Se decidete di mettere l'impasto in frigo per la maturazione e rimandare formatura, lievitazione e cottura al giorno seguente, subito dopo la pirlatura depositate l'impasto nella ciotola, coprite con la pellicola e mettetelo nella parte più fredda del frigo. La mattina seguente fate tornare l'impasto a temperatura ambiente, poi rovesciatelo sul piano di lavoro e formatelo.
Se invece decidete di formare subito il pane, dopo la pirlatura coprite l'impasto con la ciotola e attendete 15 minuti prima di formarlo.
Formatura
Per formare un filone vi rimando a questo post: io stavolta ho formato una pagnotta.
Sul piano di lavoro spolverato di semola rimacinata, prelevate un pezzettino di impasto che userete come spia di lievitazione e allargate l'impasto formando un quadrato. Portate gli angoli al centro, uno dopo l'altro. Ricordatevi di sigillare i bordi e di distribuire bene l'aria all'interno dell'impasto.


Ripetete l'operazione di portare gli angoli al centro, ribaltate l'impasto e pirlatelo bene.
Rivestite la ciotola con un canovaccio pulito e spolveratelo generosamente di semola rimacinata e farina di mais, adagiatevi l'impasto capovolto nuovamente, spolveratelo con altra semola e altra farina di mais, copritelo bene ripiegandovi sopra i lembi del canovaccio e lasciatelo lievitare finché non sarà raddoppiato di volume.
Se decidete di rimandare la lievitazione e la cottura al giorno seguente, infilate la ciotola con l'impasto formato e coperto dal canovaccio in una busta di plastica, chiudetela bene e riponetela insieme alla spia di lievitazione nella parte più fredda del frigo fino al giorno dopo, quando procederete con la lievitazione e la cottura.
Cottura
Accendete il forno al massimo, con una teglia in ferro (non antiaderente, perché il rivestimento antiaderente non resiste alle alte temperature) sul fondo. Ponete una griglia sul livello centrale e appoggiatevi un pentolino con un po' di acqua calda dentro, per creare umidità nel forno e permettere al pane di espandersi nella fase iniziale della cottura.
Al raggiungimento della temperatura togliete la teglia rovente dal forno, spolveratela di semola e farina di mais e ribaltatevi sopra l'impasto, rovesciando la ciotola. Cospargetelo di semola e farina di mais, praticate dei tagli sulla superficie con una lametta affilata e infornatelo sul fondo del forno a 250° per 12 minuti.
Abbassate la temperatura a 200°, togliete dal forno il pentolino e continuate la cottura per altri 10 minuti.
Portate la teglia sul ripiano centrale del forno e cuocete il pane a 200° con la ventilazione e tenendo uno spiraglio aperto nello sportello del forno, per 25-30 minuti.
Spegnete il forno e lasciatevi dentro il pane, sempre con la ventilazione e lo spiraglio aperto, per 20 minuti.
Estraete il pane dal forno e lasciatelo raffreddare in verticale, appoggiato alla parete: in questo modo il vapore fuoriuscirà soltanto dalla "punta" del pane, senza ammorbidire la crosta.
Aspettate che sia freddo prima di tagliarlo, altrimenti il vapore contenuto all'interno del pane fuoriuscirà attraverso il taglio bagnando la mollica e rovinandola.
Potete gustare il pane alla petarta accompagnandolo con tutti i meravigliosi prodotti citati qui!


Voglio aggiungere qualche nota "tecnica" riguardo all'uso dell'impastatrice e alla temperatura dell'impasto.
La maglia glutinica si sviluppa a temperature comprese tra 20 e 26 gradi, perciò io faccio sempre in modo di non far superare all'impasto queste temperature critiche.
Poiché l'impastatrice riscalda l'impasto anche di diversi gradi durante la lavorazione, io cerco di lavorare sempre a velocità piuttosto basse, anche per non rischiare di rompere la maglia glutinica.
Per realizzare questa ricetta, ho tenuto il composto autolitico per un'ora a temperatura ambiente (20°) e per i successivi 40 minuti in frigorifero, in modo da abbassare lievemente la temperatura prima di passare alla fase di impasto a macchina. Ho messo in frigo anche la foglia dell'impastatrice e l'acqua da aggiungere all'impasto durante la lavorazione.
E' necessario aggiungere che in tutte le fasi della lavorazione ho costantemente monitorato la temperatura del mio impasto con un termometro digitale da cucina? Manco avesse avuto la febbre...! :D :D :D
Spesso, impastando a macchina soprattutto in estate, l'impasto raggiunge i 25-26 gradi senza essere ancora ben incordato: in quel caso sospendo la lavorazione e metto l'impasto in frigo per 45 minuti circa, in modo che la temperatura scenda di qualche grado. Dal punto di vista tecnico non sarà il modo più corretto per realizzare un impasto, però è efficace!

Questa ricetta partecipa alla raccolta di Ottobre 2015 di Panissimo, raccolta mensile ideata da Sandra e da Barbara e questo mese ospitata da Terry.

venerdì 23 ottobre 2015

A cena sui Monti Cecubi... e la ricetta della zuppa itrana di cannellini e scarola

Absumet heres Caecuba dignior  
servata centum clavibus et mero  
tinguet pavimentum superbo,  
pontificum potiore cenis. 

[Traduzione:
Un più degno erede berrà quei vini cecubi 
serbati ora con cento chiavi, 
e bagnerà il pavimento di vino superbo, 
migliore che nelle cene dei pontefici.
Fonte qui]

Così si esprimeva il famoso poeta latino Quinto Orazio Flacco nel 23 a. C., nella quattordicesima del suo secondo libro di Odi (Carmina, come diceva lui. E che Cum Gaudio Magno saremmo noi, se non avessimo citato il testo in latino?).


Così invece si esprimevano due emergenti foodblogger della Palude duemila anni più tardi, giorno più giorno meno, dirigendosi in auto verso il sud della provincia pontina in un piovoso tardo pomeriggio di ottobre:
"Amore, non sei emozionato che siamo stati invitati a questa degustazione dei vini dell'Azienda Agricola Monti Cecubi sulla terrazza del castello baronale di Fondi, con i piatti tipici della cucina locale? Non è fantastico? Un vero invito a un vero evento riservato a foodblogger, giornalisti e operatori del settore! Non è meraviglioso? Siamo dei veri operatori del settore! E poi l'azienda l'abbiamo già conosciuta a Sky Wine e i loro vini ci sono piaciuti tanto! Non è...?"
"Sì, sì, è tutto meraviglioso, io sono molto emozionato e noi siamo dei veri operatori del settore. Adesso però stai calma e lasciami parcheggiare. Tra l'altro leggo su quel cartello che l'evento è stato spostato presso palazzo Caetani, sicuramente a causa della pioggia. Vediamo se all'ufficio turistico hanno del materiale informativo da darci, così raccontiamo qualcosa di Fondi ai nostri lettori, visto che siamo in anticipo di due ore. Guarda, al piano superiore hanno allestito una mostra sui prodotti tipici della zona... andiamo a dare un'occhiata!"
"Quanti prodotti! Pomodoro Torpedino, pomodoro Fondanello, sedano bianco, olive della varietà Itrana, legumi, arance bionde, mozzarella di bufala, salsiccia al coriandolo, cefalo calamita, olio d'oliva, vino, birra artigianale, pasticciotti all'uva fragola, ciambelle...!"
"Dai, vieni via, mica ti puoi prendere tutte le ricette! Forza, dobbiamo dire qualcosa su Fondi, che mi sembra davvero una bella cittadina. Avanti, leggi il dépliant!"


"La città di Fondi è più antica di Roma. In età preromana il suo territorio era abitato dagli Aurunci e in seguito fu occupato dai Volsci. E' menzionata nelle fonti antiche per l'importante produzione vinicola, in particolare per il prestigioso vinum caecubum che Plinio il Vecchio descriveva come uno dei migliori vini dell'epoca.
"La contea di Fondi fu possedimento prima della famiglia Dell'Aquila, poi dei Caetani, quindi degli Aragonesi, dei Colonna e dei di Sangro. Con i Caetani e i Colonna la città conobbe un rilevante sviluppo artistico e culturale, grazie anche a Giulia Gonzaga che nel Cinquecento vi trasferì la sua corte per alcuni anni.
"Del passato di Fondi restano numerosi e pregevoli edifici storici, come il castello e il palazzo Caetani, le chiese di San Pietro, Santa Maria e San Francesco d'Assisi, il convento di San Domenico e l'abbazia di San Magno ai piedi del monte Arcano, nonché un'antica sinagoga, le mura ciclopiche e i resti di una villa romana lungo il litorale.
"Nella piana di Fondi, rinomata per l'ortofrutticoltura, si trovano numerose sorgenti e diversi laghi salmastri, tra cui il lago di Fondi, anticamente chiamato Amyclanus, che ospita specie ittiche quali l'anguilla, il lattarino, la muggine e il cefalo calamita... Pensi che possa bastare, come informazione per i nostri lettori?"
"Direi di sì, anche perché l'evento sta per iniziare e dobbiamo raggiungere palazzo Caetani!"


Saliamo i gradini della scala in pietra che ci porta al primo piano del palazzo e ci immergiamo nell'atmosfera raffinata di uno splendido salone illuminato, con tavoli rettangolari disposti lungo il perimetro e due file ordinate di botti al centro della sala, alcune delle quali rivestite con eleganti tessuti e nastri colorati. Dietro ai tavoli, i ragazzi dell'Istituto Alberghiero di Formia attendono l'inizio ufficiale dell'evento per servire ai presenti i vini dei Monti Cecubi e i piatti della tradizione culinaria fondana preparati con i prodotti tipici locali, mentre un musicista riempie con le sue note il tempo dell'attesa.


Approfittiamo del fatto che il salone non sia ancora eccessivamente affollato per ammirare il luogo che ci ospita e scattare alcune foto e poi, con i nostri calici al collo, ci dedichiamo attivamente a far conoscenza con i protagonisti della serata: i vini dei Monti Cecubi.
"Ma quali sono i Monti Cecubi?"
"Sono tutte quelle colline prospicienti il mare che vanno da Fondi a Formia toccando Sperlonga, Itri e Gaeta. La parola cecubo in realtà non indica un particolare vino o vitigno, ma un territorio ricco di vitigni autoctoni: l'uva Serpe, il Cerzale, l'Abbuoto, il Ciciniello, il San Giuseppe, l'uva Pane, nonché diverse varietà locali di Aglianico e di Falanghina. L'azienda si estende per 110 ettari, di cui venti coltivati a vigneto, sei ad oliveto della varietà Itrana per la produzione di olio e i restanti dedicati a boschi e pascoli, con sugherete e macchia mediterranea. Le vigne si trovano a trecento metri di quota sul mare di Sperlonga, in mezzo a boschi di sughere, e l'influsso del mare, unito alla forte escursione termica tra il giorno e la notte, alla composizione del terreno e all'esposizione al sole, determina l'intensità, la freschezza e la longevità dei vini cecubi. E poi - amore, questo lo devo dire assolutamente! - sia i vigneti che gli oliveti sono coltivati biologicamente!"


"Hai studiato, eh? Vediamo se sei preparata anche sulla storia."
"Sono preparatissima! Ho letto che i vini di queste zone sono conosciuti e apprezzati fin dall'antichità e sono stati celebrati e cantati da diversi poeti romani. Plinio il Vecchio, stilando una speciale classifica dei vini, riteneva il vino cecubo il migliore, superiore al Falerno che si produceva tra Sessa Aurunca e Mondragone: antea caecubum, postea falernum, scrisse. Columella, nel De Agricoltura, indicava le alture sopra l'odierna Sperlonga come il sito di produzione del miglior vino dell'impero romano. E Orazio scriveva che i vini cecubi erano nascosti, come un bene prezioso, sotto cento chiavi, ed erano superiori perfino a quelli offerti nei ricchi banchetti dei pontefici."


"E sai anche perché i vini cecubi si chiamano così?"
"Stando a quello che ho letto, Appio Claudio Cieco, il costruttore della via Appia, dopo aver percorso agevolmente la pianura pontina si imbatté proprio nella zona montuosa che va da Fondi a Formia attraverso Itri, e si rese conto che queste ultime propaggini dei monti Aurunci costituivano un ostacolo piuttosto impervio da superare. Come ricompensa per le sue fatiche, però, trovò in queste zone un pregevole ventaglio di vini che trasportò a Roma come un carico più prezioso di un trofeo di guerra. Il termine cecubo si suppone derivi da caecus "cieco", congiunto a bibeo "bevo" o bibere "bere", fusi insieme a identificare il "bere del cieco", cioè la bevanda preferita proprio da Appio Claudio Cieco. Ora però basta parlare, io non ho ancora assaggiato niente!"

Ci accostiamo al tavolo riservato alla degustazione dei vini, dove sono allineate in bella mostra diverse bottiglie dell'azienda: il vermentino Amyclano; il Thymos, assemblaggio di Boccabianca (Falanghina locale) e altre varietà autoctone bianche: uva Pane, San Giuseppe bianco, Ciciniello; e il Vinum Caecubum Rosso, composto per il 90% da uva Serpe e per il 10% da Abbuoto e affinato in tonneau. L'azienda produce anche il Vinum Caecubum Bianco, da uve Fiano in purezza fermentate e affinate in tonneau; il rosso Terrae d'Itrj, blend di Abbuoto, Cabernet Sauvignon e Serpe affinato in grandi botti di rovere e castagno; e infine, per la gioia di qualcuno, il passito Dracontion, 50% Fiano e 50% Falanghina, affinato in barrique di rovere e di acacia per due anni.


Ma poiché il qualcuno deve attendere il momento del dessert per avvicinarsi al passito, con i nostri calici e la nostra macchina fotografica ce ne andiamo alla scoperta dei prodotti locali e delle specialità della cucina fondana che vengono servite agli altri grandi tavoli del salone... non senza tornare, di tanto in tanto, al tavolo dei vini, perché lo sanno tutti che ad ogni pietanza il suo vino e ad ogni vino la sua pietanza, no? ;o)

Iniziamo la nostra cena... pardon, la degustazione con un tris di primi: gli Gnocchi con ragù di carne e salsiccia fondana e salsa di  pomodoro Torpedino, le Pettole (lunghi maltagliati) con i ceci e la Zuppa di cannellini e cicoria, che accompagniamo con un calice di Vinum Caecubum Rosso.


Proseguiamo con due secondi di pesce e due di carne: il Baccalà con peperoni arrosto, il Cefalo calamita alla scapece, il Brasato al Vino Cecubo e la Salsiccia fondana con broccoletti. Niente di meglio dell'Amyclano e del Thymos per accompagnare i piatti di pesce; quanto al brasato e alla salsiccia, li anneghiamo doverosamente nel Vinum Caecubum Rosso!


E poi tanti, ma tanti antipasti e contorni: la Salsiccia fondana, il Lonzino, la Tartara di scottona, la Caprese di pomodoro Torpedino e mozzarella di bufala, l'Insalata di pomodoro Fondanello con sedano bianco, olive di Gaeta e cipolla fresca, le Melanzane alla parmigiana, i Peperoni arrostiti, e una meravigliosa Ricotta di bufala con miele e frutti di bosco!


Sul finire della cena arriva anche il momento di conoscere un po' più da vicino l'azienda attraverso i volti, le voci e le parole delle persone che la vivono quotidianamente. Il legame dell'azienda con il territorio, la riscoperta e il recupero dei vitigni autoctoni, i metodi di coltivazione biologici, in una sorta di ritorno al passato per creare innovazione, sono tra i valori che ispirano il lavoro in vigna e in cantina presso l'azienda Monti Cecubi e che ci vengono illustrati con l'ausilio di un video proiettato nel salone, nonché dalla viva voce di Chiara Fabietti, che è l'enologa dell'azienda e che vi presentiamo:


E finalmente... il dessert e il passito!


Vedete i cioccolatini nel nostro piatto?
Per la delizia del solito qualcuno, erano ripieni di Dracontion!
E non finisce qui!
A tarda sera notiamo un tavolo affollarsi di gente, e persone allontanarsene reggendo in mano una misteriosa pallina appoggiata su un piattino...
"Un gelato! Un  gelato! Amore, dobbiamo averlo!"
E non è mica un gelato qualsiasi! E' un Gelato al pomodoro e fiordilatte di bufala con topping di olio extravergine d'oliva Itrana!


Rincasiamo a notte fonda, felici, soddisfatti e satolli.
E a qualcuno viene in mente qualcosa...
Una ricetta.
Di quelle antiche, che sanno di casa, di famiglia e di paese.
Di semplice e di buono.
Di mamme, di zie e di nonne.
E un'idea.
Sapori, colori, consistenze.
Tradizione e un pizzico di innovazione.
"Amore, voglio una bottiglia di Amyclano."
"Per fare cosa?"
"Vedrai!"


Zuppa itrana di cannellini e scarola con pane alla "petarta" e crostone di pane alla "petarta" con zuppa itrana di cannellini e scarola



Per la zuppa
Ingredienti per tre persone:
Gli ingredienti in corsivo sono nostre personali aggiunte alla ricetta tradizionale, per le quali ci prendiamo tutta la responsabilità... e anche tutto il merito!
200 g di fagioli cannellini secchi (o 480 g cotti)
1 carota
1 costa di sedano
1/2 cipolla
2 foglie di alloro
2 foglie di salvia
1 cucchiaino di semi di finocchio, pestati in un mortaio
2 piante di scarola
3 cucchiai di olio extravergine d'oliva Itrana
1-2 spicchi di aglio, tagliati a metà
peperoncino tritato, secondo il gusto
Per servire:
olio extravergine d'oliva Itrana a crudo
2-3 cucchiai di colatura di alici di Anzio (vegani e vegetariani possono escluderla)
pane (senza glutine per chi deve evitarlo) con la "petarta"

Preparazione:
Mettete a bagno i fagioli per una notte, poi scolateli, sciacquateli e lessateli con la carota, il sedano, la cipolla, l'alloro, la salvia e i semi di finocchio. Conservate l'acqua di cottura.
Lavate la scarola, lessatela, scolatela bene, mettetela in una ciotola e tagliuzzatela con le forbici.
In una pentola o casseruola ampia riunite l'olio, il peperoncino, l'aglio e i semi di finocchio (se non li avete usati per la cottura dei fagioli), e cuocete a fuoco medio finché l'aglio non sarà leggermente dorato.
Aggiungete la scarola e fatela insaporire per 10-15 minuti.
Unite i fagioli con il loro liquido di cottura e cuocete a fuoco basso e con il coperchio per circa mezzora, aggiungendo poco a poco l'acqua di cottura della scarola se il liquido dei fagioli non fosse sufficiente.
Spegnete il  fuoco, salate con parsimonia e lasciate insaporire la zuppa per qualche ora. Al momento di portarla in tavola riscaldatela e disponetela nei piatti individuali, accompagnandola con fette di pane con la petarta tostato. Completate il piatto con un giro di olio a crudo e mezzo cucchiaio di colatura di alici per ogni piatto.


Per il crostone
Ingredienti per ogni persona:
una fetta di pane (senza glutine per chi deve evitarlo) con la petarta
scarola ripassata come sopra
fagioli cannellini cotti come sopra
olio extravergine di oliva Itrana
qualche goccia di colatura di alici di Anzio (vegani e vegetariani possono escluderla)

Preparazione:
Lessate e ripassate la scarola come descritto precedentemente.
Unite i fagioli cannellini scolati dal liquido di cottura e fateli insaporire a fuoco basso e padella coperta per una decina di minuti, aggiungendo poco per volta qualche cucchiaiata della loro acqua di cottura per rendere il fondo umido e leggermente cremoso, ma non liquido. Regolate di sale, ma con moderazione.
Tostate il pane e disponete ogni fetta su un piatto individuale.
Appoggiate sul pane qualche cucchiaio di scarola ripassata con i cannellini e completate con un filo di olio e la colatura di alici.
Servite il crostone ben caldo accompagnato da un calice di Amyclano freddo.


Aho', e mo che è 'sta petarta? Che ce state a fa' magna'?
Hai ragione, lettore.
La petarta è... la petarta!
(Il mistero della petarta verrà svelato nel prossimo post!)


La ricetta della zuppa itrana di cannellini e scarola partecipa al 100% GLUTEN FREE FRI(DAY) di Gluten Free Travel and Living.

I Love Gluten Free (FRI)DAY – Gluten Free Travel & Living